THE ZONE OF INTEREST, la banalità ma soprattutto la noia del male

Visto per senso del dovere ma soprattutto per la stima nei confronti di Glazer (Under the skin, 2013, film perfetto) e per il coro di elogi che ne accompagnano l’uscita (capolavoro per Film TV, scrivo queste righe prima di leggere il numero dedicato).

A me è parso essenzialmente un film noioso, in cui il fuori campo e l’attesa per un accadimento a venire (che sappiamo benissimo sarà delusa) impediscono al plot di presentarsi, di appassionare, di esserci. Penso a Pacifction di Albert Serra e di come lì, con strategie molto diverse, il nulla della storia e del suo intreccio fossero invece appassionanti, nonostante la durata di 3 ore (qui solo 100 minuti). Penso anche a Childhood of a leader, per questa severa, ricercata ed estremamente credibile ricostruzione storica, fatta di scene e costumi ma soprattutto di sguardo – e viene certo in mente anche il gelo del Kubrick di Barry Lindon, o Shining, maestri evidenti di Jonathan Glazer.

Insomma un film nel cui vuoto non è piacevole trovarsi, seppure sia presentato in una confezione di lusso; non è bello starci perché anche i due passaggi più significativi e sorprendenti, la visione “termica” della ragazzina con le mele e il vomito del protagonista che ci conduce inopinatamente all’oggi, risultano insoddisfacenti, costruiti, deboli, anch’essi limati in sottrazione per far risaltare la tesi della Banalità del male, e da cui purtroppo il film pare non volersi muovere, mai.

Anche il romanzo di Martin Amis era così? Non mi pare, ma forse merita una rilettura.

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