Al di là dei proclami da social media (sempre rivolti a nessuno, sia chiaro), secondo cui dopo il mortale gangster-movie col pannolone The Irishman non ci sarei ricascato e avrei evitato con attenzione ogni altro film dell’ormai altrettanto defunto (artisticamente) Martin Scorsese, in fin dei conti come fai a non vederlo, anche solo per rispetto di quel glorioso passato (lontanissimo), nella speranza di un’ultima zampata? Ci sono cascato sempre in questi 20 anni (forse dovremmo contare da The Departed, da quella proiezione alla Festa di Roma 2006 seguita dall’incontro con Scorsese stesso e Di Caprio, bellissimi entrambi, dove mi sentivo un alieno scettico e infastidito in mezzo alla claque entusiasta beota leccaculo della critica italiana intenta a venerare il maestro…).
E infatti, riecco la delusione. Quest’ultimo caso, un film corretto e totalmente inutile, che non ha alcuno smalto o personalità, che si affida a codici e consuetudini in modo pedissequo e stanco, mi ha ricordato in particolare l’esperienza di Shutter Island, non so perché, forse per la presenza di un Di Caprio inconsueto e carichissimo, non impeccabile ma coraggioso nel sovvertire le coordinate delle sue interpretazioni abituali. Qualche problema di sceneggiatura e l’assoluta assenza di pathos completano il pastrocchio di un’opera incapace, a mio avviso, di valorizzare il suo vulnus tragico, così ricorrente nello Scorsese politico (e qui torniamo alla pietra angolare di Gangs of New York), parliamo del danaro come peccato originale della società americana e motore delle sue nefandezze storiche e contemporanee.
Resta quindi poco e niente, in mano: zero risate, nessuna empatia con un protagonista orrendo e deficiente, una sequela di omicidi e scene che vorrebbero essere forti ed emblematiche ma paiono solo tappe lungo una via crucis dovuta e sfiancante, lunga 3 ore e mezza, cui lo spettatore devoto si sottopone pensando di fare cosa buona e giusta.
Bah.
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