RAPITO di Marco Bellocchio, e bugerato dalla psicoanalisi

Avevo iniziato a leggere qualche autorevole giovane critico italiano su Gli Spietati, per capire come posizionarmi, ma a me della profondità delle analisi, della pertinenza, della professione del critico, in questo momento storico e personale, me ne fotte davvero nulla. Dico solo quello che sento.

La prima parte del film è una bomba. Scivola via con una precisione, un rigore formale e spaziale, una intensità drammaturgica che forse – da verificare – Bellocchio non trovava dai tempi di Vincere, cui il film mi pare somigliare per moltissimi aspetti. Certo, il contributo della Nicchiarelli nello script si avverte, in alcune concessioni: Elia l’ebreuccio che ti serve ad entrare nel mondo cristiano, sbavature sui caratteri o ridondanze nei dialoghi. Ma nel complesso il film tiene e la storia avvince, almeno fino alla 3/4.

Non so cosa accada dopo, colpa anche mia che l’ho finito dopo 12 ore, a freddo, e quindi mi son perso il filo emotivo che in un film cosi andrebbe tenuto saldo. Mi pare cmq che da una parte le solite pippe fagioliane psicoanalitiche di Bellocchio subentrino a sconvolgere ogni cosa, ma soprattutto che il bignamino storico prenda il sopravvento e si mangi lo scioglimento, che dopo la sconfitta processuale non trova una direzione e un senso. Fino ad un finale che suona logico e illogico allo stesso tempo, con Edgardo da mezz’ora perso tra quello che era e quello che è diventato, schizofrenicamente. In ogni caso, un successo: immagino in Israele le file nei cinema, come anche l’uso che dovrebbero farne tanti insegnanti di liceo, di ultimo anno, giusto per approfondirne gli aspetti storico-religiosi ma anche semiotici più complessi.

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