Il sol dell’avvenire, un Kaurismaki vorrei-ma-non-riesco in salsa antidepressiva

Sarò io che sono ipercritico, che invecchio e mi sento giorno dopo giorno sempre più fuori posto rispetto ai gusti di oggi, ai bisogni e alle sensibilità che mi circondano. Sarò io che continuo a traballare fuori fuoco alla mia veneranda età. Sarà. Ma difficilmente riesco a ricordare una visione più pietosa, disturbante e progressivamente angosciata di questa, dolorosa arriverei a dire, per uno che di Moretti ha fatto una colonna della propria cinefilia, persino della propria personalità. Ci sono dei sensi e dei discorsi così alti e sottili, nelle intenzioni dell’autore e tra le righe, che mi sono sfuggiti? Me lo auguro, e detto con grande franchezza non me ne frega nulla, ma proprio nulla, di indagarli con voi. Perché credo che non mi servano a niente, come invece pensa Nanni quando usa quella citazione da Calvino, come se le sue turbe personali ed artistiche, oltreché ovviamente politiche, così rimasticate rigiocate riproposte, possano oggi davvero interessarci, o servirci. A me, ma ho la presunzione di credere nemmeno alla maggioranza di voi, non servono proprio a nulla, non dicono nulla. Fanno solo pena.

Ma c’è di più, poco di più, in un film che non ha e non vuole una storia, che non fa ridere e non dona alcuna emozione. C’è un momento in cui ho avvertito, debole ma nitida, la tensione e la sincerità del Moretti che conosciamo, che da vent’anni non so dove sia finito. Parlo della confessione alla figlia riguardo l’uso di antidepressivi: ecco qui si sente che sta sfondando l’apatia del film e provocandone il tessuto, ma Nanni caro lo avevamo già capito che ti stai drogando pesantemente, altrimenti non reciteresti come un automa incapace di “sentire” la battuta, non imporresti queste non-trame e quei primi piani imbarazzanti ai tuoi attori, glaciali, non ci sfiancheresti con questa ennesima pagliacciata.

Dispiace per te e per la tua salute mentale, chioserei, ma poi arriva l’atroce sfilata finale, coi tuoi interpreti di una vita e soprattutto quel tuo saluto con lo sguardo in macchina, verso quel pubblico invisibile che credi sia lì fuori a pendere dalle tue labbra, e allora esco dal torpore e mi infurio, mi indigno. Sto male, più del solito. Errori del genere si pagano, e da morettiano sono costretto a togliermi la casacca e dallo scaffale caricarmi la tua intera filmografia con i suoi spunti, gli insegnamenti, la compagnia che mi ha fatto in tutti questi anni, buttarla nel cesso e tirare l’acqua.

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