Ora che finalmente chi voleva ha avuto modo, e chi non lo ha ancora visto probabilmente non sa nemmeno cosa accadde quella notte nella villa di Roman Polanski, credo si possa parlare liberamentre dell’ultima fatica di Quentin Tarantino, anche del finale, senza troppo nuocere alle volontà oscurantiste del suo autore.
Io, personalmente, con discreto e colpevole ritardo, mi aspettavo altro. Immaginavo certamente Cliff e Rick contro la Manson Family, magari riuscendo a salvare la vita di Sharon Tate e del suo bimbo in pancia, e magari rimettendoci le penne. Qualcosa di diverso invece accade, l’epilogo a lungo atteso e preparato con accompagnamenti a tratti divertenti (la voice over che commenta gli spostamenti dei due gruppi, le didascalie sugli orari, il generale depistaggio nella consapevolezza che tutti aspettano quello showdown lì) si rivela molto piu delicato e significativo, e non sto parlando del sangue e del lanciafiamme. Seguiamo infatti un po’ basiti questo ribaltamento privo di senso, la villa del talentuoso attorucolo Rick Dalton che si sostituisce a quella di Sharon, evitando il massacro noto, con la complicità di quel pittbull che non vedeva l’ora di azzannare carne umana ed un Brad Pitt strafatto e compassato, disilluso a tutto, l’amico che tutti vorremmo. Sharon non muore più, il candore suo e di quegli anni alla fine sopravvivono, e Quentin compie un significativo scarto rispetto all’uccisione fumettistica di Hitler nel cinema di Inglorious Basterds: la storia e la storia dei personaggi di film può essere invertita e pervertita, e le figure che tanto amiamo possono essere sottratte con la forza del cinema al loro destino a lungo compianto.
Non accade lo stesso anche con Laura Palmer, nella terza stagione di Twin Peaks? Per diciotto faticose ore Lynch ci conduce in percorsi che mettono in scena la morte reale, e spesso durante il periodo stesso del tournage, di alcuni protagonisti della vecchia serie. La morte, a cui bisogna assolutamente sfuggire e solo dentro una storia è possibile riuscirci, si pone come il centro caldo e pulsante di Twin Peaks 3. E infatti, chi di noi ha saputo arrivare al finale, sa bene cosa accade: Laura non muore più, il viaggiatore nel tempo e nello spazio Cooper la prende per mano e la sottrae agli incontri che la attendono tra i boschi quella notte. Laura si trasmuta, diviene Carrie Page e non può riconoscere la casa dove è cresciuta come Laura Palmer, riportando Cooper a quello stato di catatonia con cui a lungo si è mostrato sullo schermo, lasciandoci con un urlo che squarcia il buio. Come nel finale di Mulholland Drive ed Eraserhead, serissimo e commovente, Lynch rivolge ai suoi sfortunati personaggi uno sguardo pieno di compassione, stavolta lasciando Laura a sussurrare per sempre, all’orecchio di Cooper, una soluzione all’enigma che non conosceremo mai.
Con Tarantino, in questo gioco di specchi cominciato molto tempo fa (quante analogie di percorso, di senso e di estetica ridicola sublime si possono rintracciare nelle filmografie dei due?), pare invece in quest’ultimo Once Upon a Time…in Hollywood dotato di un tocco inedito, manicheo e melenso verrebbe da dire, ancora non ho capito quanto sincero e costruito, sicuramente spiazzante. Rick che accede alla villa di Sharon e Roman dopo aver contribuito ad annullare una tragedia che ha inciso fortemente nella cultura americana e nello star system della storia del cinema, ci dice di un omaggio, l’ennesimo e anche un po’ due palle, agli attori di Serie B e al loro mondo di mestiere ed umiltà, ma soprattutto conduce questo nono film in una dimensiona nuova, nel lavoro sulla Storia che QT ha deciso di intraprendere da dieci anni a questa parte. Non più il cinema che sconfigge il nazismo, che ribalta la schiavitù o che shakespearianamente si chiude a giocare al massacro in una baita immersa nella tempesta – quello che abbiamo tra le mani, dopo tre ore di immersione sensoriale in un mondo ormai scomparso, è un dolly che nel buio si solleva sopra la villa di Cielo Drive mentre Rick viene accolto da abbracci, dolcezza e stima da Sharon, che senza saperlo ha salvato da morte nota. Un po’ come i due film rosa (Jackie Brown e Kill Bill) che realizzò dopo le accuse, stupide e inopportune, per non aver offerto alcun personaggio femminile in Reservoir Dogs, Tarantino qui rovescia di 180° sapore, intenzione e sguardo che ci aveva rivelato con Hateful Eight, dimostrando quanto anche senza i tagli di Sally Menke o lo schema produttivo della Miramax sia ancora una voce unica e inconfondibile nel panorama del cinema contemporaneo.
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