Solito Ken Loach, verrebbe da dire: una storia come una minestra, che ti scalda e ti fa stare bene. I buoni da una parte, i cattivi dall’altra; i sentimenti, gli ideali e il mondo come dovrebbe essere. A tratti soffre di una prevedibilità grossolana ed urticante, che non consola ma stranisce. Banalità trite su migrazioni, comunità ospitanti e altri centomila blablabla. Pietoso ritratto di un protagonista desichiano cui la vita ha sempre e solo detto no, con un canuccio destinato ad una brutta morte. Alla fine bisogna arrivarci, e mica si possono sempre lasciare i film a metà per repulsione e fatica, no? E a volte in effetti la perseveranza paga.
E The Old Oak, seppure guastato da una penna e da una mano registica visibilmente stanche, con tutto il rispetto per il lavoro fatto nei decenni e il posto che meritano nella storia del cinema Paul Laverty e Ken Loach, trova nel finale – scrittissimo e teorico, certamente, ma che non lo conoscete Ken il rosso? – il suo piccolo riscatto, che i maligni possono sentire come la zampata per salvare il film ma a me è parso solo una bella scena, commovente, riuscita.
Sto invecchiando.
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