Film della notorietà per il norvegese Borgli, classe 1985. Che non conoscevo, passato a Cannes un anno fa ed ora arrivato sul suolo americano con quel progetto matto con Nicholas Cage sognato da altri, ancora non visto ma promettente.
Allora, calma, parliamone. Mi sono innamorato!
Prima di tutto perché Sick of myself mi pare eccellere nell’arte dello spiazzamento: non solo non fa mai accadere ciò che ti aspetti, ma soprattutto si mantiene in un equilibrio miracoloso tra diversi toni, generi, stilemi e registri, quando pare giungere all’horror vira verso la parodia, quando si direbbe dondolare nell’accorto e realistico quadro contemporaneo alla Tier (La persona peggiore del mondo) inquina tutto con visioni che lo fanno sembrare un film psicologico e mind-game, ne fa una delle sue cifre costitutive. Bellissime le descrizioni e le trovate del segmento iniziale, prima dell’assunzione delle pillole deturpative, in cui conosciamo con tratti minimi e precisi questa matta norvegese degli anni Venti, che non riesce ad inserirsi in dialoghi durante una cena, che non sa come relazionarsi con l’esterno, che cova in quello sguardo psicotico comportamenti estremi che abbiamo avvertito baluginare in tante persone incontrate nella nostra vita.
Già questo varrebbe il prezzo del biglietto, cancellerebbe quel sapore da film a tesi, impiantato in una contemporaneità da guardare con disprezzo per i suoi non-valori effimeri e narcisistici e blablabla, l’errore madornale dell’ultimo, orrendo e celebrato Ostlund, in cui Sick of Myself scade forse nella linea narrativa secondaria sul fidanzato artista-ladro, dove pesa uno sguardo colmo di giudizio, dove il film si sporca di macchietta. Nel complesso invece mi pare un film dissacrante e divertentissimo, su un personaggio e delle situazioni che tutti conosciamo, a cui vengono date delle accelerate ben distribuite, che divengono lynchanamente zone di assurdo e violenta messa in discussione del nostro comune senso di realtà. Vedasi il momento cruciale e controverso, nella sua semplicità e commistione diabolica, della scena di sesso tra i due protagonisti mentre si parla/immagina il funerale di lei, con lista d’ingresso e timbro sul polso ai partecipanti – potrebbe sembrare una soluzione facile e didascalica invece a mio avviso si sposa perfettamente con questa vicenda, col taglio del film, con i suoi orribili protagonisti.
E tutto questo avviene senza alcun riferimento cinematografico netto e soverchiante, senza mai divenire pastiche citazionista, riuscendo a creare una formula personale e godibile, capace di rimandare a De Palma, a The king of comedy, ovviamente all’Ostlund di Force majeure e a tanto Ari Aster (ma senza quel bisogno di farsi cineasta), con una sua sensibilità e senso, consegnandoci un autore che ha incamerato cinema ed ora è pronto a giocare con riferimenti generi e mille altri pattern senza subirne la supposta autorità.
Il finale si, da più parti è stato detto, delude: ma come chiudere questo film pazzesco in modo diverso, evitando di martirizzare la sua folle protagonista?
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