Pensando a cose che finiscono, libro e film dispositivi a confronto

Bloccato per mesi causa pandemia, il nuovo film da regista di Charlie Kaufman è tratto dal romanzo d’esordio del canadese Iain Reid, che ho divorato in due notti alcuni mesi fa. Evitando per quanto possibile odiosi spoiler, si tratta di un testo deciso da una clamorosa rivelazione finale, che tiene agganciato lo spettatore utilizzando strumenti e tenore della suspense e dell’orrore, per rivelarsi un dramma psicologico furbo ma teso, essenzialmente riuscito. Kaufman rispetta i principali turning points del romanzo, oltre che riproporne le anomalie narrative che con prepotenza lo caratterizzano – ne cito una centrale sulla carta e sfocata nel film, malriuscita a mio avviso: le ripetute chiamate che la protagonista dall’identità ballerina riceve da sè stessa, che rompono l’equilibrio realistico ed introducono ad un di fuori da chiarire. Diversamente accade nel finale, dove il genere di riferimento sposato dal libro e il meccanismo di suspense vengono sfacciatamente traditi nel tentativo di “adattare” davvero il romanzo allo stile di Kaufman. E qui devo dire, riconoscendo il limite strutturale del lettore che si fà spettatore dello stesso testo, il lavoro di Kaufman mostra il suo lato più debole e forzoso, intellettualistico ed ahimè fastidiosamente oscuro.

Fino allo scioglimento, infatti, interventi sul testo e proposte di messa in scena avevano reso la visione di un film tutto parlato, con pochissima azione, abbastanza interessante. Mi riferisco al costringere la visione nell’abitacolo e non voler mostrare quasi nulla dello spazio esterno, a infarcire i dialoghi con stranianti citazioni e riferimenti letterali musicali storici e piu in generale culturali cosparsi di una disturbante misura riflessiva, perfetti nel restituire il soliloquio intrinseco a qualsiasi nozionismo e speculazione; mi riferisco anche e soprattutto a ripetuti e spiazzanti “camera tricks”, lontani dal decoupage di genere, con cui Kaufman riesce ad allontanare lo spettro di tanti altri film cui Ending Things inevitabilmente rimanda (primo tra tutti, almeno nella mia mente, la prima parte di Eraserhead) e a produrre una tensione intelligente, misurata.

Si direbbe dunque, a conti fatti e in attesa di una seconda visione, maggiormente accorta, contemplativa e analitica, che la nuova fatica registica di Charlie Kaufman (considerando anche la struttura produttiva di Netflix e il fatto che si tratta del suo secondo adattamento da romanzo dopo Adaptation – Il laro di orchidee) si riduca ad un tentativo riuscito a metà di acquisire una trama e un universo di riferimento, come anche precise intenzioni autoriali, per sfornare un prodotto ascrivibile alla propria poetica e al proprio universo simbolico, poco produttivo dopo la magniloquenza di Synecdoche, New York del 2008.

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