FIRST COW, LA STORIA INTORNO A NOI

Regina del cinema indipendente americano, pressochè sconosciuta in Italia nonostante le star usate negli ultimi film (Laura Dern, Kristen Stewart, Michelle Williams in Certain Women; Jesse Eisenberg e Dakota Fanning in Night Moves), Kelly Reichardt vanta un percorso ormai consolidato grazie a importanti partecipazioni e premi nei festival internazionali.

Con questo piccolo (2 milioni di dollari) e interessante progetto, torna a parlare di amicizia, wilderness e soprattutto Storia. E lo fa senza estenuare con dilatazioni art house o sterili provocazioni, anzi facilitando la visione con una semplcità e persino una prevedibilità che se possono far storcere il naso ai palati più sofisticati, si rivelano in fondo necessari alla vicenda, al suo discorso su possibilità e destino cui la società americana, ma vai a capire, forse tutte le società umane, sono inevitabilmente condannate.

Il prologo è al presente. Una ragazza trova in un bosco due scheletri sdraiati uno accanto all’altro e sepolti chissà quanto tempo prima. Partiamo dalla fine dunque, da quelle tracce di passato che ci circondano e pervadono la nostra vita quotidiana, ne fanno parte seppure non visibili. Questo frame aperto ci trasporta due secoli indietro, ad osservare la vita raminga del dolce cuoco Cookie e del suo amico cinese Lu, protagonisti di un sentimento di amicizia e solidarietà tanto candido quanto toccante. Sappiamo da subito che quei due scheletri sono i loro, e non appena decidono di imbarcarsi nella produzione di frittelle, rubando il latte della prima mucca arrivata in Oregon, di proprietà del fattore capo della zona, sappiamo bene che l’ardua impresa gli sarà fatale.

Ma non importa, e non solo perché (come afferma didascalicamente Lu) uomini come loro sono costretti a rischiare per sopravvivere, gli orfani e i nomadi, per i quali il presente si configura come una perenne attesa di tempi migliori; nessuna debolezza di scrittura può impedire che il sodalizio tra i due si affermi, tramite una messa in scena attenta alla ricostruzione d’epoca, costumi oggetti e dettagli che pulsano nel cuore di ogni inquadratura, due interpreti misurati e convincenti. Intorno a loro, il mondo pare già compromesso dalla violenza umana e del capitale, la sopraffazione e la divisione per classi sociali sancite.

Il film tuttavia afferma con forza, sin dall’esergo in apertura, che al destino si può felicemente contrapporre l’umanità. Si vede con chiarezza nella scena madre in casa del fattore capo. Partiamo dal dialogo tra il padrone di casa e il suo ospite, la politica e i potenti intenti a discutere di schiavitù e Legge, ma la macchina da presa muove presto altrove, molto più interessante l’arrivo oltre la finestra di Cookie e Lu, il passaggio chiave della loro esemplare parabola di sopravvivenza e riscatto, al di là ed altrove rispetto all’odioso esercizio del potere.

Un Revenant al femminile, verrebbe da concludere, che nelle prime battute rimanda al violentissimo film di Inarritu ma che con decisione presto se ne discosta: niente violenza, caccia all’uomo, spazio e sopravvivenza animale – qui si parla di amicizia, con candore e naivete, ma senza per questo rinunciare ad offrire il proprio punto di vista sulla storia e il potere, la vana lotta per l’affermazione individuale.

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