Mette voglia di fare i seri e scrivere una vera recensione, per capire davvero come la si pensa – mica per altro. Come farebbe il maestro Grazzini: 3 paragrafi netti e deliziosamente scritti (cappello introduttivo sull’operazione, trama ripercorsa rigorosamente, commento e analisi del testo) ma per quale destinazione? Il dolce e piccolo Giallonerd che leggete in 4? Allora preferisco giocare d’istinto, procedendo per note e sensazioni più che pensando al lettore, cercando di dare precisione alle osservazioni.
Questo film è stato per me un rollercoaster. Fino alla svolta della mezz’ora ne soffrivo lo stile gelido e frontale tipico del cinema di Michel Franco, così interessato al dolore e a quegli elementi descrittivi tanto marcati (i chiavistelli e l’antifurto rientrando a casa di Sylvia, grrrr). Poi la svolta della rivelazione nel bosco lascia di sasso e propone un percorso sorprendente nel rapporto tra i due protagonisti. Per quanto prevedibile il film viaggia bene nella sua parte centrale, segnata dal ripensamento ed avvicinamento di Sylvia a Saul, da una narrazione asciutta e carica. Lo spettatore che conosce i film di Franco si aspetta la brutalità anche con un certo timore (io), la tensione che giunge dallo schermo è forte ma magari stavolta tutto si risolverà in pura e semplice intensità drammaturgica – siamo a Hollywood, mica a Città del Messico. Con l’avanzare delle scene risulta stonata quest’aderenza tutta scritta tra titolo/tema e plot/personaggi, nel rapporto di coppia tra memoria che ammala ed impedisce di vivere (Sylvia, sarà poi tutto vero? Le mamme possono anche rovinare la vita) e memoria che va e viene, trasforma in animali miti, dementi come dicono gli americani, ed impedisce di vivere in egual misura (Saul spesso dorme, sorride svuotato, ma una sottile polemica del film verso un fratello che ha poco a cuore la sua felicità e forse si è appropriato della sua casa si avverte, e funziona molto bene con pochissimi elementi). Almeno un paio di scene brillano di grande intensità: quel meraviglioso sfiorarsi cauto dei due “ammalati” che conduce al rapporto sessuale, la prima scena di confronto familiare a casa della sorella (MDP fissa spietatissima, ci mancherebbe altro) davanti alla truppa di ragazzi che da un momento all’altro dovranno confrontarsi con sesso e alcool, entrare in quel mondo dei grandi che pare sia invaso da fantasmi e dolore (questa la tensione soggiacente più terrificante e funzionale del film – lo dico da padre). Franco sa dirigere gli attori con talento eccezionale, anche se la mano si fa spesso pesante e la voglia di shockare lo spettatore massacrando i personaggi prende il sopravvento.
Arriviamo dunque alla terza porzione di film, con le sue rivelazioni (un pochino gratuite) sul dramma personale di Sylvia, con l’inevitabile crollo di un Saul che da solo non può stare ma ne avrebbe tutto il diritto, e soprattutto con un finale emozionante, reso possibile dal nuovo, giustissimo motore del film, o almeno quella che nel mondo che abbiamo conosciuto e che resterà dopo la visione dovrà affrontare le conseguenze del dramma vissuto da Sylvia, vale a dire sua figlia. Lei raccoglie Saul e assiste al suo commovente pianto (Coppa Volpi quasi tutta in questa scena), semplicemente lo prende per mano e lo porta dalla madre, ne osserva il dolcissimo abbraccio finale. Tutto si svolge serenamente, placidamente, Saul con la sua gabbia-vestaglia/ Sylvia a pulire la casa come un criceto nella ruota. Una scena meravigliosa, la lentezza e severità dello sguardo di Franco che si fanno suadenti, toccanti. Ma soprattutto il mondo dei ragazzi, così a lungo tenuto in una bolla che si temeva sarebbe esplosa (Despues de Lucia, indimenticabile), che con la loro semplicità consentono ai grandi di superare le barriere della memoria, forse formare un’improbabile coppia di innamorati.
Franco ci lascia con la speranza, credo per la prima volta, e la cosa – caso raro, quando si finisce ad Hollywood – convince e commuove.
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