Muovendosi in bilico tra horror familiare e dramma tra quattro mura orrorifico, come molti sottolineano citando Gente Comune o Tempesta di ghiaccio, il primo lungometraggio di Ari Aster lascia ammirati ma allo stesso perplessi. Gli strumenti per prendersi lo spettatore e produrre le reazioni volute sono al lavoro al massimo del loro potenziale, entriamo ci accomodiamo e ci beamo della performance di Toni Colette, immagini e suoni di alto livello, l’evoluzione del plot e l’uso sontuoso di tutta la grammatica di genere, ma non mi pare facile accantonare quel senso di artificio e premeditazione che trasuda da alcuni pori.
Ci troviamo in una campagna già di per sé molto witchosa, con la casa sull’albero dove qualcosa accadde o accadrà (moltiplicata dalle onnipresenti creazioni della mamma-demiurgo) e decor tutto in legno (certamente il fuoco qualcosa combinerà); i membri di questa famiglia appaiono alquanto disturbati, solamente colpa del funerale della nonna? Una madre che soffre ma sembra lucida, nonostante il suo mestiere segnali un rapporto problematico con la realtà; un padre-ombra che non ha un lavoro, con un chiaro accento anglosassone (Gabriel Byrne, che panza!), che spiace dirlo ma sembra capitato sul set per caso; un figlio adolescente fattone, arrapato dalle forme della compagna di classe e in cerca di un altro film dove abitare, in stile American Pie, che potrebbe essere il più a rischio ma presto intuiamo sia vittima e non carnefice; e poi Charlie, la figlia 13enne chiaramente poco normale, così inquietante da segnalare sfacciatamente e da subito le anomalie che marcheranno il film. Durante il funerale iniziale entrambi i genitori si preoccupano che non ci siano noci nella barra di cioccolato che Charlie sta addentando con sguardo fisso: interessante notare come lo script consegni non solo al padre ma anche alla madre una battuta preoccupata al riguardo, guadagnandoci in verosimiglianza ma preparandoci ad uno sviluppo pevedibile.
Raccontiamo il resto del film? Basti riassumere che questo contesto diviene secondario e quindi credibile nella seconda parte, quando il soprannaturale scalza gli elementi realistici e spariglia le carte. Ari Aster punterà, con l’opera successiva Midsommar, ad un altro nucleo sociale da indagare con la lente del fantastico orrorifico, la giovane coppia post-adolescente, trovando un terreno di maggiore empatia e combinando in maniera più armonica la propria idea di cinema “de paura” con il ritratto sociale contemporaneo, aiutato da un cotè e un’ambientazione decisamente piu intriganti (il Nord Europa, la comunità, la troppa luce, etc). Qui mi pare che la combinazione, per certi aspetti analoga, sia meno riuscita, acerba nell’esposizione e interessata – tipico da opera prima – a svolgere un film a tesi (la disfunzione familiare generata dai silenzi, dall’impossibilità del genitore di perdonare il figlio e allo stesso tempo di proteggerlo, etc). Ma questi appunti non devono farci perdere di vista il lavoro sulla messa in scena e in particolare sull’inquadratura, mozzafiato, capace di indugiare, spezzare ritmi e traiettorie, inseguire il nostro magone, assistito da un suono invadente, crescente, sfaccettato.
Scommessa e speranza da reclusione causa pandemia: con il prossimo film Aster centrerà il capolavoro? Aspettiamo fiduciosi.
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