Troppa grazia, visti i tempi

Visione incantata dell’ultima fatica del sempre interessante Gianni Zanasi

Mi succede sovente: vedere film che mi appassionano, nel presente o più spesso dal passato, anche se non hanno ambizioni particolari, una portata significativa, un’aura importante. Mi scopro sempre più spesso ad innamorarmi di oggetti filmici riconoscendone molti difetti, per poi interrogarmi sul cosa non abbia funzionato in loro, più che in me che mi lascio così stupidamente andare.

È successo anche ieri con Troppa Grazia di Gianni Zanasi, che anni fa a Venezia tutti celebravano con Non pensarci (a me pareva davvero una roba insignificante), e che ora torna prepotente a rompere alcuni schemi di genere, cercando una chiave per raccontare l’irraccontabile, l’Italia di oggi. Il mondo del lavoro, la paura degli stranieri, il secolarismo che ci ha fatto dimenticare il magico che abbiamo intorno vengono rivisitati con molte sbavature e alcune scelte discutibili in Troppa Grazia, ma con un senso della scena, della direzione degli attori e una leggerezza di scrittura che nemmeno più i grandi autori italiani mi sembra sappiano restituire. Zanasi dalle parti del Lazzaro Felice, Rohrwacher family docet, e un po’ troppo preoccupato di infilare musiche su scene che poco c’azzeccano (molte delle quali, a naso, paiono rattoppi di post-produzione); tuttavia, quello che davvero mi pare il limite di un prodotto affascinante, apprezzabile nell’asfittico panorama odierno, è proprio la regia di Zanasi, che quando “osa” lo fa in maniera “troppo italiana”, movimenti e composizione ormai contaminati da televisione e pubblicità, che non riesce a restituire la cifra di surrealtà e a tratti spasso che la sceneggiatura, mossa da un’intuizione notevole, impone al film.

Un’occasione persa, ma visti i tempi…. Troppa grazia!

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