Mean Streets di Martin Scorsese

CINQUANTENARI, serie 2023/ 1

Contiene e anticipa tantissimo del maestro futuro, ma lo fa in una cornice e in un tempo che già con Alice non abita più qui e soprattutto Taxi Driver, i due film successivi, saranno ampiamente superati: il formato quadrato, la grana grossa, il taglio documentaristico, il dialogo dal sapore improvvisato e molto actor studio, la “voce” da far sentire.

Si intravedono fantasmi di The French Connection, col suo pedinamento e spirito ondivago, di Cassavetes col suo indipendentismo intransigente, di Padrino Uno/ Due che ne incorniciano la realizzazione e ne inquadrano la collocazione storica – Cassavetes che lo convinse a fare un film personale e non blaxpoitation, Coppola che gli anticipò i soldi per pagare la multa che gli diedero gli organizzatori della Festa di San Gennaro. Altri tempi, altro mondo.

Rivedi oggi Mean Streets e avverti il talento, lo stesso che anche la Warner fiutò, in quel clima di cambiamento e urgenza che si respirava ad inizio Settanta. Vedi come vengono scelte ed utilizzate le musiche, che dominano il tessuto del racconto, alternandosi tra italiane diegetiche e americane pop del periodo, ad intrecciarsi poeticamente per rappresentare quel mondo e il suo autore, intrisi e all’incrocio tra due tempi, due culture. Altro che hippies, sesso e Woodstock (che pure andò a filmare) – le storie del primo Scorsese non sono trasgressive, tutte rivolte semmai al passato del cinema, alla famiglia e alla colpa, a sentimenti e a mondi antichi.

Prendi poi la macchina da presa, già ossessiva e virtuosa, a mano e addosso ai personaggi, fish-eye e carrelli ad anticipare o seguire, instancabile e mai più doma. MDP che si fa proiettore, in quel prologo divenuto celebre: il risveglio inquieto di Charlie, la stanzetta protetta dalla luce alta del giorno, il confronto con lo specchio e con la croce, tutto già posizionato ed esibito, corredato di tecnica, matrice dello Scorsese del futuro – la hit delle Ronettes che parte a ritmo con i jump-cut sul profilo di Keitel, frammenti di super8 familiari che valgono da coda dello Scorsese che è stato (il doc-intervista ai genitori Italian-Americans, splendido) e impiantano lo Scorsese del futuro.

Ancora sull’inizio del film, e sulla presentazione dei suoi 4 protagonisti: ironia fortissima, dramma dietro l’angolo inevitabile, come una tragedia classica. Incredibile come con gli anni Mean Streets, come un figlio con il padre, sia finito per somigliare a Goodfellas; nello stile visivo, certamente, e ce lo dimostra quell’avvicinamento in ralenti a tempo di musica verso Charlie al bancone, identico a Jimmy Conway pronto a sbranare il rompipalle venditore di parrucchini Moe, ma anche e soprattutto nel gioco magico dei registri. Come diceva Franco La Polla, che di Scorsese ne sapeva qualcosa, avete sbagliato tutto: After Hours è la tragedia, Goodfellas la farsa!

Saltiamo allora al finale, dove troviamo l’Italia de I Vitelloni in salsa americana. Venti anni dopo, senza un treno che parte ma con un cadavere da raccogliere, ucciso per giunta dallo stesso regista, ecco che si torna alla cinefilia, ai padri d’oltreoceano; i personaggi vengono sorvolati ed attraversati, a sottolineare il loro destino immobile, il quadro entro cui sono stati indagati. Sempre storie di strada, di amicizia, di presente infinito/ futuro mai giunto.

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