Tutta la vita davanti non è un film sui call center, come la critica e il marketing (facili e riduttivi entrambi) vogliono farci credere. È piuttosto un film sull’Italia di oggi, che per Paolo Virzì e il suo co-sceneggiatore Francesco Bruni è un Paese buio e triste, attaccato a valori ridicoli e perdenti, pieno di ingiustizie e solitudine, in cui l’identificazione professionale più che un traguardo è un limite, considerando cosa propone il mercato del lavoro. In pratica un paese allo sbando, che giornali e telegiornali presentano quale materia perfetta per una commedia all’italiana in grande stile.
A guardare il film, però, non è che ci si diverta un granché. Le uniche risate riescono a strapparle giusto giusto Elio Germano e Valerio Mastandrea, che tra le mani hanno i due personaggi più realistici, quelli che tutti noi incontriamo quotidianamente, per strada o sul posto di lavoro, e che grazie alla loro aderenza al personaggio convincono appieno: da una parte il lavoratore perso nel proprio mestiere e nel meccanismo aziendale conseguente, che non si rende conto del ridicolo in cui si trova e si sbatte come se stia facendo davvero un “lavoro speciale”/ dall’altra il sindacalista che prova a scuotere le coscienze, insicuro tanto quanto le persone che vorrebbe risvegliare, che è costretto ad etichettare persone e fenomeni per riuscire a contenere la realtà e a parlare una lingua comprensibile da tutti. Due macchiette che riescono però a raccontare qualcosa di vero, di concreto.
Altro discorso va fatto invece per gli altri due personaggi comprimari, il Claudio di Massimo Ghini e la Daniela di Sabrina Ferilli. Nel profilo dei loro personaggi, nella maniera con cui i due attori lavorano sulla recitazione (con le dovute differenze, per carità: Ghini sempre deciso e convincente, la Ferilli flaccida e molto prevedibile), ma soprattutto nell’evoluzione del sub-plot di cui sono protagonisti, il motore della narrazione finisce fuori giri, alla ricerca di un significato da dare al corpo del film: il dramma diventa melodramma, la commedia comicità, la crudeltà omicidio senza giusta causa e contesto. Accade sempre più spesso, nel cinema italiano di questo periodo, che si finisca fuori dal seminato, che si alzi il livello dello scontro, nel vano tentativo di trovare un linguaggio che colpisca, un tono che parli a tutto il pubblico. Lo possiamo accettare da chi gioca solo e soltanto per il Mercato; un po’ meno da chi dice di essersi ispirato a Monicelli, Risi e Scola, che di misura erano maestri indiscussi. I nobili referenti che Virzì e Bruni si attribuiscono non sembrano davvero azzeccarci molto con Tutta la vita davanti, e non solo per problemi di misura, di rigore complessivo. Anche e soprattutto per lo sguardo con cui ritraggono la contemporaneità, manicheo e semplicistico, che non riesce a scavare con profondità e coerenza. Ma la colpa forse non è la loro: l’Italia di oggi è davvero un calderone bollente e informe, difficile da cogliere nella sua interezza, privo di riferimenti chiari e concreti cui appigliarsi. Ma in ogni caso, non è nelle passioncine finte del Grande Fratello e nell’insistenza dell’immagine televisiva che dobbiamo cercare una verità socio-popolare con cui identificare i problemi culturali del Paese: eccolo lo schematismo che disturba, e non dice nulla, ma proprio nulla, sulla nostra quotidianità. Questa mancanza di lucidità, di visione complessiva ma anche di approccio, riguarda tutto, ma proprio tutto il film.
Sin dall’inizio, quando la stucchevole voce over di Laura Morante irrompe sullo schermo per spiegarci cosa accade, le note paiono stonate, lo strumento non accordato a dovere. Inizia l’iter di vita e professionale della neolaureata Marta, destinato in partenza a scontrarsi con la realtà che dicevamo. Tutto scivola sereno e classico sul sentiero accidentato della tanto decantata (ma mai conosciuta, verrebbe da aggiungere) precarietà di oggi: discussione di laurea di fronte a vecchi megeri dell’università, colloqui come buchi nell’acqua, delusioni di ogni tipo, impieghi da baby-sitter e telefonate nel call center di un’azienda che vende un elettrodomestico tipo Kirby. La laureata ovviamente se la cava, si mette in luce, lei persona sbagliata nel posto sbagliato, e finisce per primeggiare in quel mondo che non la riguarda, che non la può gratificare, che non fa altro che mettere in luce la stortura del sistema. Mentre i suoi vecchi compagni di università si sono inseriti nel mondo del lavoro senza neanche laurearsi, facendo carriera ed invidiando oggi lei, che credono essere ricercatrice di fama internazionale, come un novello Dante Marta attraversa l’inferno del lavoro svuotato di senso, in cui ad occupare posti micragnosi part-time come telefoniste o patetici come quelli dei venditori, costretti ad umiliazioni sovrumane di fronte ad un fallimento professionale, ci sono i poveretti di oggi, le vittime del berlusconismo, quelli che dalle labbra del Grande Fratello e di Buona Domenica pendono come scimmiette, che vivono una realtà mediatizzata fatta di unghie ricostruite e tatuaggi sul fondoschiena, macchine cabrio e grinta artificiosa, senza rendersi conto di quanto sono vittime. Ecco questo schema non dice nulla di questa Italia, dell’Italia del lavoro a progetto o precario, dell’Italia colta e cafona, dell’Italia acuta e poverella, anzi. Come giustamente diceva giorni Anselma Dell’Oglio (e dico Anselma Dell’Oglio, attenzione!…), unica voce a stonare il coro entusiastico levatosi all’uscita di Tutta la vita davanti, questo nuovo Virzì è un film reazionario, e ha ragione: è reazionario nel distinguere i personaggi e anche il giusto e lo sbagliato, è reazionario nel compatire la realtà dei neo-laureati, è reazionario nel mostrare la deriva dei figli degli anni ’80, i quarantenni di oggi, lampadati e con le tette rifatte. È reazionario come cinema, soprattutto, indirizzato a quel pubblico che si diverte a deridere e mostrare nelle sue pochezze. si perchè in sala, a vedere questo film, ci andranno di certo più shampiste, telefoniste zeppate e venditori in giacca e cravatta piuttosto che giovani autori televisivi, neo-laureati e aspiranti lavoratori del futuro.