Un film non può cambiare il mondo, il nostro comodo mondo e le abitudini cui ci ha costretto, lo sappiamo bene tutti. Ma questo non significa che non ci si possa provare, a cambiare. Almeno la nostra testa. Il Mondo non cambierà, ne siamo certi, e con esso neanche l’uomo: come l’albero su cui si chiude il film, che tende verso il cielo e non può evitare di innalzarsi e crescere, nonostante venga privato di rami e foglie, così l’uomo percorre un sentiero già tracciato, senza speranza di cambiare sé ed il resto dell’universo in cui abita, costretto ad una tensione al “divenire” inarrestabile, nonostante i drammi e la sofferenza che il vivere è in grado di generare.

The New World è innanzitutto un film sul linguaggio e sullo spazio da esso costruito in cui siamo costretti a vivere. Tra pareti di parole intrecciamo la nostra personale, intima relazione con gli altri e con la Natura, possiamo avvicinarci al mondo esterno, cercare di interpretarne il significato.
La comunicazione è il primo scoglio contro cui i colonizzatori giunti sulle coste della Virginia devono infrangersi: comunicazione selvaggia tra loro, che passano da un ammutinamento all’altro senza riuscire a risolvere la terribile situazione in cui si trovano, vittime di una riduzione ad animali che sembra avere molto a che spartire con gli uomini nascosti fuori dal fortino, nell’erba; comunicazione di conoscenza con i selvaggi, ancora legati ad uno stadio di natura cui la civiltà del Vecchio Mondo sembra aver abdicato, che parlano prima con il cielo e con sé stessi, quindi con chi si trova di fronte a loro.
In questo processo di introspezione, il nuovo film del fantomatico Terrence Malick si inscrive in un contesto storico più consono a sostenere il proprio discorso introspettivo rispetto al clima della seconda guerra mondiale in cui era ambientato il precedente The Thin Red Line: nel 1607 l’impatto animista e spirituale del selvaggio indigeno trova una maggiore (e maggiormente credibile) incidenza sul cristiano occidentale non ancora illuminato, legato a doppio filo ad una religiosità ancora molto poco moderna, sensibile ad un ritorno ad una “realtà” (come dice il protagonista Smith) in cui la finzione della maschera sociale che ha dovuto indossare è inutile, in cui il possesso ed il rapporto con lo spazio ed il tempo possono liberarsi, seguire un corso di incontaminata purezza.
La prima parte del film riesce a restituire con efficacia questo momento di spiritualità vissuto da Colin Farrell, il ritorno ad una condizione “umana”, a quella capacità di scoprirsi elementi alla stregua di cielo terra ed acqua, inseriti in un perpetuo ed inarrestabile movimento di vita, privati della forza di contrapporvisi.
Secondo questi presupposti il film rivela una coerenza ed una forza straordinari.
Come Pocahontas viene trascinata a divenire Rebecca, ad abbandonare i suoi precedenti costumi (ma li abbandona davvero, o forse non li ha mai indossati, non li ha mai acquisiti, posseduti?), a travestirsi da donna inglese, e a questa mascherata non oppone alcuna resistenza, trascinata dalle onde del vivere, così la tecnica narrativa del film stravolge, in linea con tutto il cinema del suo autore-filosofo, il sistema di apici patetici cui il genere cui si può ascrivere il film ha sempre imposto. L’assenza di momenti clou con cui lo spettatore deve confrontarsi rende la vicenda particolarmente anti-spettacolare e delude alcune tipiche aspettative emozionali: brevi e bruschi passaggi narrativi, depotenziati nella loro possibile carica drammaturgia, producono vistose e significative ellissi (ad esempio il passaggio allo stato di guerra con gli indigeni, la nascita dell’amore tra i due protagonisti, il cambio di stagione, l’inversione narrativa della seconda parte di film, la nascita del figlio di Pocahontas o il rapporto con Christian Bale): una tecnica di scrittura filmica democratica, inusuale ed affascinante, per la quale nulla sembra valere davvero la pena di essere vissuto, o anche solo visto.
Allo stesso modo, ambiente e contesto storico sono un mero pretesto, utile più ad incorniciare lo scontro interiore dei personaggi (Smith nella prima parte, Rebecca nella seconda) che non a raccontare la Conquista dell’America, ormai solo uno sfocato, appena intravedibile sfondo o contesto di riferimento.
Non c’è Grande Narrazione che meriti attenzione, sembra dirci Malick, se confrontata con la passione e la scoperta del sé cui si va sempre incontro, prima o poi, nella vita… l’incontro con un Altro che è in Noi, e non fuori di noi, che per scoprirlo fino in fondo dobbiamo studiare il nostro più intimo, recondito pensiero, e non sforzarci di comunicare, tentativo tristemente fallito in partenza.
L’ invadente voce over dei protagonisti e la macchina a mano costantemente in azione producono sospensione e riflessione, raggelano il pathos dello scontro di civiltà, tratteggiano un Mondo Interiore capace di poeticizzare l’Evento, in maniera molto più controllata rispetto alle derive New Age della precedente pellicola.
Avvalendosi di un robusto commento mozartiano, straordinario nell’accostarsi alle meravigliose immagini del film, e trascinandoci in un ambivalente identificazione, prima con Smith quindi con Pocahontas, che ci descrive i due risvolti di una stessa stravolgente esperienza interiore, l’ultimo lavoro del redivivo Malick ci consegna, ancora una volta, un autore intelligente, mai superficiale, capace di abbinare la coerenza incredibile di un uomo senza ansia e senza fretta, che sa aspettare il momento giusto per tornare sulle scene, ed un pensiero sempre utile, mi verrebbe da dire indispensabile in tempi di decadimento morale e spirituale, per farci sognare (anche solo per tre ore) un mondo in cui, senza illusioni e senza condanne, si possa tornare a sentire, con il cuore e non solo con le orecchie, ciò che davvero è reale, vero, nella nostra vita.