Dopo una trilogia imponente e fondamentale, che moltissimo ha dato al cinema contemporaneo e alla ridefinizione del tempo nel racconto filmico (Elephant – Gerry – Last Days), Gus Van Sant torna con un film piccolo e minimalista, che mentre si accosta con chiarezza al modello/filo conduttore dei film precedenti se ne discosta anche con nettezza, mettendo in evidenza un processo evolutivo/involutivo altrimenti nascosto nelle analogie esistenti tra i 4 film.
Ad una prima occhiata, il mosaico sui giovani americani contemporanei di cui parlavamo tempo fa muove da un presupposto nuovo, che esclude Paranoid Park dalla trilogia di cui sopra: nessun fatto reale come ispirazione, solo un luogo della Portland natia di Van Sant, che certo per la sua inquietudine avrà scatenato la fantasia e la curiosità dell’autore. I giovani ci sono sempre, e come sempre il loro mondo silenzioso e tormentato, ma non violento o sempre eccitato come in Larry Clark, caso mai lineare, altalenante ed estremamente sensibile, rischia da un momento all’altro di trasformarsi in un tunnel senza uscita, una morsa allo stomaco che non ti lascia più.
Sapendo in anticipo qual’era l’esile trama di Paranoid Park (un giovane skater uccide accidentalmente una guardia notturna e lacerato dal senso di colpa non riesce più a tornare alla sua vita da adolescente), e quanto le trame siano solo un pretesto per giocare col cinema, nell’universo di Gus Van Sant, era facile aspettarsi un taglio sociologico del film netto, che scavasse a fondo la questione, che ponesse interrogativi radicali e complessi, che mostrandoci il mondo in soggettiva di Alex costringesse, come dire, un’immedesimazione nel personaggio e nel suo mondo sconvolgente, da cui sarebbe stato difficile uscire. Pur conoscendo lo stile filmico del regista, difficile sarebbe stato immaginare un distanziamento dal film e dalla sua realtà come quello che il film invece realizza.
Non si tratta solamente della cicuitazione temporale, il ripetersi del racconto, l’andare avanti e tornare indietro della storia, allo scopo di raccontare il flusso emozionale del personaggio, quanto più che altro dell’uso straniante che Van Sant fa della musica, delle sfocature, degli intermezzi in Super 8, di tutto quello che gira attorno al racconto ma che non gli appartiene, che fa da contorno e che descrive indirettamente la dispersione psichica di Alex: in mezzo a questo materiale, proposto con insistenza, tanto che arriva forse a coprire il 40% del film, qualche cosa stona, rompendo con la misera, inconclusa e pretestuosa storiellina del film in maniera piuttosto dirompente. Che si tratti di un modo estremamente coerente e partecipe per sposare il punto di vista di Alex? Difficle dirlo.
Lo spettatore si perde in questo modo nel godimento della costruzione delle immagini, ormai consapevole che servono il discorso del film molto più che non l’evoluzione della storia, il raccontino sull’impossibile redenzione/liberazione di Alex. Lo spettatore lo sa, non può non averlo capito se ha scelto, nel calderone dell’offerta cinematografica natalizia, di andare a vedere proprio Paranoid Park, lo sa ma continua a chiedersi, senza trovare una risposta, perché? Perché questo sperimentalismo non convince e finisce semmai per urtare, perché il pregio principale della trilogia, e cioè l’asciuttezza narrativa e la precisione dell’immagine, hanno finito per sciogliersi in quello che, senza rischiare di essere cattivi senza motivo, non possiamo che definire leziosismo registico, e dei più fastidiosi?
Privato dell’ambizione di sfornare un capolavoro, misura che di Elephant faceva un miracolo di coerenza e rigore filmico, Van Sant si perde e ci fa perdere, chiude il film quando meno te l’aspetti, evita di dare a noi e ad Alex una speranza nel futuro, inghiotte nelle forme morbide ed ipnotiche di una rampa per skateboarder e nel movimento della mdp che segue le ruote fissate sotto le tavole una lezione di cinema che gira ormai attorno a se stessa e che alla fin fine, probabilmente, non riesce neanche più ad emozionare.