Niente di nuovo, oltre che niente da nascondere, si potrebbe dire. Ed anche niente da dire, da scrivere o da commentare, di fronte all’ultimo lavoro dell’austriaco Michael Haneke.
Abituati alle malattie visive e al sadismo delle sue storie, alla sconvolgente provocatorietà di questi racconti, c’interroghiamo stupefatti sul senso di un’opera che si presenta come un rompicapo irrisolvibile. Sulle pagine di duellanti di Settembre, Mario Sesti afferma che l’ultima inquadratura svela il senso del film, e chi sta guardando cosa; sfuggendomi il merito di questa dubbia intuizione, ed il senso che la pellicola dovrebbe di conseguenza acquisire (cosa svela l’incontro tra il figlio di Georges e quello di Majid, tenuto a debita distanza sfocata dai nostri occhi, se non la conferma del “nulla narrativo” del film?…), preferisco procedere con ordine e raccontarvi la trama di Caché.
Siamo indubbiamente dalle parti di David Lynch come ha pensato qualcun’altro, e senza sbagliare; con i dovuti distinguo, aggiungerei io, e per giunta con una certa vena polemica.
Il film parte proprio come il Lost Highway (Strade Perdute, 1996) del regista di Missoula, Montana: una coppia bene (qui un conduttore televisivo in una trasmissione sui libri e una indaffarata collaboratrice di una casa editrice, lì un sassofonista e la moglie “senza lavoro e con tanti amici”) riceve strane videocassette in cui viene ripresa la propria casa per ore ed ore, un’inquadratura fissa in un punto esposto ma invisibile nella strada di fronte, dove si dovrebbe notarne la presenza; nel video ci sono gli spostamenti delle persone, l’andirivieni del traffico, il giorno e la notte, tutta la vita di una tranquilla via di Parigi. La coppia è inquieta, non capisce chi e perché ha deciso di giovargli uno scherzo del genere: un pazzo, un amico del figlio dodicenne, un fantasma del passato che ritorna per perseguitare Georges, il protagonista.
Da qui le differenze narrative tra le due pellicole iniziano a farsi evidenti, oltre che nel dispositivo di messa in scena: all’opposto dei cupi toni irrazionali cui la vicenda del film di Lynch si piegava già nella sua prima parte, qui subiamo un inseguimento della logica investigativa della storia, ci identifichiamo con il protagonista e con la sua crescente paura, ci poniamo le sue stesse domande, pur presagendo che la verità che piano piano emerge non potrà soddisfarci completamente.
Georges ha commesso una brutta azione da bambino, allontanando dalla sua casa il figlio dei braccianti, morti annegati nella Senna durante una manifestazione contro la guerra d’Algeria (il sospetto inizia a farsi strada nel protagonista dopo aver visto in un ennesimo filmato la dacia in cui aveva trascorso l’infanzia): il bimbo Georges era geloso, si era ritrovato tra i piedi un fratellino indesiderato con cui condividere tutto e non aveva resistito a mentire ai propri genitori e a fargli passare la vita in un orfanotrofio.
E’ il filmato successivo, che mostra un piano-sequenza verso l’interno di un’abitazione, a spingere Georges oltre: si reca nell’appartamento ripreso e lì incontra, pur non riconoscendolo, il suo ex pseudo-fratellino; l’uomo si dichiara innocente, non c’entra nulla con quelle cassette e con i disegni inquietanti che le accompagnano (un bambino che perde sangue dalla bocca, un gallo sgozzato).
Georges non gli crede, e continua a ritenerlo colpevole anche di fronte alla cassetta successiva, una ripresa fatta mentre lui si trovava nella stanza con l’uomo, durante il loro incontro. Non ne vuole sapere, è convinto che è stato lui, anche se la moglie cerca di dissuaderlo: la cassetta prosegue per un’ora e quell’uomo, rimasto solo nella stanza, passa tutto il tempo a piangere, commosso e disperato – non sembra un attore, nota la donna (e con il principale di Georges, che visiona un film identico recapitato nel suo ufficio durante una delle sue sempre più frequenti assenze), nessuno lo penserebbe colpevole di quelle minacce. Georges però non desiste, e a Majid imputa anche la responsabilità per la scomparsa del figlio, una semplice scappatella per una notte: lo fa arrestare insieme al figlio di colore, inconsapevole del dolore che gli sta provocando, ancora una volta, perseverando in un errore endemico.
L’uomo sta crollando, è evidente, rassegnato e a testa bassa all’interno del cellulare che lo sta trasportando in questura. Invitato Georges a casa sua, con un gesto disperato Majid si taglia di netto la gola, facendo così sprofondare nel baratro il confuso protagonista; la scena è straziante ed indimenticabile, le urla riempiono la sala.
Il passato ritorna e non abbandona Georges, e con lui resta incollato a tutta una generazione che è riuscita a sopravvivere alla Storia solo calpestando i più deboli.
Ancora con un pugno di mosche in mano, costretto a guardare in faccia la realtà, Georges ingolla due pasticche e si mette sotto le lenzuola, lasciando insoluta la fitta trama del film. Chi è stato a mandare le cassette? E perché?
Tanto vale dirlo subito: non lo sapremo mai.
Un primo livello interpretativo è chiaramente di matrice politica, e sociologica.
Lo stesso Haneke ha parlato del rimosso del protagonista come il rimosso di un Paese intero (o di un Pianeta intero), e forse di tutta una classe sociale. Georges è un carattere eternamente votato alla sconfitta, e alla reiterazione dell’errore: colpevole da bambino, geloso del suo spazio e giustificabile per la giovane età – cieco da adulto, incapace di provare compassione ed altruismo, bugiardo e codardo di fronte al figlio di Majid nel dialogo conclusivo (o vigliacco, trattenuto dal costume, nella splendida gag di violenza mancata con il giovane ciclista di colore), intrappolato in un rapporto sentimentale che non concede mai un’effusione, una parola carina, un gesto d’affetto con la moglie o il figlio, in una monotonia che gli impedisce di nascondere il proprio tormento ad una madre costretta a sentire sempre le stesse, identiche storie.
Non c’è redenzione per lui e per la borghesia, colpevoli per l’eternità; la ricerca di un margine di salvezza concede solo la creazione di uno spazio in cui tornare su un errore che è parte costitutiva dell’essere medio-borghese: questa, si direbbe, la morale del film. L’omicidio del povero manifestante – i braccianti finiti nella Senna – è imputabile ad un’intera generazione che ha comprato la propria sopravvivenza solamente per poter chiudersi in un recinto di falsità, di forma, in cui lo schermo della tv sostituisce i sentimenti e congela il contenuto del vivere insieme (pur riportando, anche se incompresi, i segni di una dannazione che si perpetra di generazione in generazione – le immagini di Abu Ghraib e di Barbara Contini).
Se a mandare i filmati non è stata la povera vittima, costretta a non ricevere un’istruzione per colpa dei capricci di un bambino altolocato, la storia non suggerisce possibili soluzioni alternative. Alcune linee vengono tracciate ma è impossibile parlare di indizi (qui la principale differenza con Lynch): la madre di Georges e la sua dimessa comprensione, il comportamento di suo figlio quando torna a casa dopo la scappatella di una notte, edipicamente risentito con la madre da cui teme di dover subire un tradimento e altro ancora, epifenomeni di un drammatico e definitivo quadro sulla famiglia contemporanea, e nulla più.
La soluzione non può essere trovata qui, il livello dell’analisi diviene un altro, un po’ più complesso, alcuni elementi intervengono a sostenere la mia teoria.
Primo tra tutti, l’interesse maniacale di Haneke verso la tv, il sistema riproduttivo video, l’effetto di riavvolgimento e velocizzazione dell’immagine (vedi Funny Games). Il film inizia infatti confondendo le carte e mostrandoci da subito il filmato del persecutore, con le voci dei protagonisti fuori campo ad introdurci la vicenda, e prosegue costruendo un parallelo inquietante che gioca contemporaneamente sui nostri sensi e su quelli del protagonista (pur non riuscendoci del tutto: la sua meschina convinzione non viene mai intaccata, come dicevamo prima, neanche di fronte alle più evidenti prove di innocenza di Majid). Almeno in tre circostanze l’azione che seguiamo sullo schermo si rivela poi essere parte del filmato: restiamo imbambolati, impauriti che prima o poi tutto ciò che stiamo vedendo venga mandato indietro dal telecomando di Georges, costringendoci a riconsiderarne lo statuto ontologico. Alcuni punti di ripresa (sulla strada e a casa di Majid) tornano poi nel mondo della diegesi leggermente modificati, quasi a volerci suggerire l’analogia tra i due atti filmici: è la stessa camera a riprendere Georges e la sua famiglia, dentro e fuori dal film.
Secondo, la similarità eccessiva tra la parete zeppa di libri della sala da pranzo della casa e la scenografia nello studio del suo programma televisivo suggerisce che, dopotutto, la credibilità della vicenda rischia di venire meno nel procedere della storia, quasi a voler allontanarci dall’idea che un enigma è stato proposto e una risposta vanamente cercata.
Terzo, come già intuibile da quel che ho scritto sin qui, è la materia film stessa che crolla mentre la diegesi pretende di proseguire il suo percorso: l’unica risposta possibile che si fa avanti è che quello che filma il protagonista, banalmente, sia proprio l’occhio del cinema, o della giustizia ultraterrena, o di un rimosso collettivo cui nessuno spettatore può sottrarsi. La storia raccontata non si erge su null’altro che sullo sbriciolamento delle sue pareti di senso: noi sappiamo, abbiamo capito che una risposta, nel mondo opprimente del film, non può essere data. Perché risposta alla storia non c’è, e non potrebbe essere altrimenti.
Resta la forma, e una regia che ha giustamente vinto la Palma d’Oro, uno stile personale che coniuga il movimento suadente alla staticità debordante, che propone primissimi piani grandangolati splendidi, che utilizza una fotografia capace di abbagliare nel passaggio da un buio soffuso alla luce della lampadina (la sequenza verso il finale nella stanza da letto), che produce una tensione indicibile, preparandoci ad eventi catastrofici che avvengono al contrario in un contesto ampiamente presagito (il suicidio di Majid), caratteristica tipicamente post-moderna.
Resta un racconto fatto tra amici durante una cena, il racconto di un uomo scambiato per un cane che è morto il giorno in cui lui è nato, che non ha senso e ci spaventa, ci fa ridere e ci smuove le membra, obbligandoci a non comprendere quanto di vero c’è in quella bizzarra storia (è proprio Georges, ovviamente, a chiedere delucidazioni al suo simpatico ospite).
Resta un film memorabile che non vuole altro che essere mal-digerito, per ricordarci quanto le nostre colpe sono e saranno sempre incancellabili; a ricordarcelo, qualora dovessimo trascorrere una vita triste e perfetta da persone riuscite, ci sarà sempre l’occhio del cinema, impietoso e sfacciato analista delle nostre esistenze.