Il cinema indipendente come lo conoscevamo è morto, e ormai fa parte delle majors. Utilizzando delle sotto-società accorpate (in questo caso la Searchlight), le sorelle di Hollywood (in questo caso la Fox) mirano a promuovere un cinema originale e all’apparenza libero, che racconta storie diverse con uno stile meno omologato rispetto ai prodotti della Casa Madre. È questo il contesto produttivo in cui si colloca L’Ultimo Re di Scozia, ricostruzione storica magniloquente supportata dal fascino di una star come Forest Whitaker, che gigioneggia nei panni di un personaggio ambiguo e carismatico e che vale da solo il prezzo del biglietto – una produzione imponente, uno sforzo storiografico e realizzativo notevole per portare sul grande schermo una realtà sconosciuta ai più, ambientata nel continente più insanguinato del ‘900 e meno frequentato dal Cinema.
La storia è quella del dittatore Idi Amin, despota “illuminato” dell’Uganda degli anni ’70, raccontato in alcuni momenti della sua reggenza mediante il viaggio dell’eroe Nicholas Garrigan, giovane e audace medico scozzese fresco di laurea, personaggio di fantasia, tuffatosi nel mare dell’Uganda all’alba del colpo di stato e presto invischiato fino al collo nel dramma del regime. L’esperienza di Nicholas filtra e monta la Storia, prima affascinato sostenitore e medico di fiducia di Amin, poi sempre più consapevole della deriva populista e sanguinaria del regime militare, capace di uccidere in dieci anni di dittatura 300.00 ugandesi. Attraverso Richard e le sue capacità, il suo ingenuo e determinato desiderio di unirsi alla costruzione di un nuovo Uganda, lo spettatore passa dai goduriosi fasti della prima parte di film, in cui Amin è ammantato da un’aura mistica e seducente, fino alla presa di coscienza di Richard e al conseguente rovesciamento di ottica, per cui Amin si rivela essere un paranoico dittatore capace di sterminare il suo stesso popolo.
Un primo problema critico si pone di fronte all’impostazione del discorso, prima di analizzare la contraddittorietà dell’operazione stessa. Quando il cinema anglosassone scende in campo per conoscere l’Altro, e studiarne i comportamenti risposti, in genere gioca per facili schematismi che irretiscono gli intellettuali: ciò che si conosce, o meglio si crede di sapere, diventa preminente ed offusca l’effettiva portata dell’oggetto d’indagine. L’ultimo Re di Scozia non costituisce un’eccezione alla regola. Kevin Macdonald è un documentarista al suo primo lavoro di fiction, e la cosa pare giovare al progetto solo relativamente: una ricostruzione storica raffazzonata, che gioca tutto d’interni ed evita le masse (e quando accade, il rischio manicheismo è dietro l’angolo: vedi la prima apparizione di Amin) si dà in cambio di una partitura di elementi che vogliono riportare indietro le lancette e renderci partecipi tanto di un clima (attraverso l’entusiasmo e la sfrontatezza di Richard degli adolescenti anni ‘70) quanto di un immaginario. La fotografia si fa allora sgranata, la musica d’epoca, la regia divertita a zoomare e a muoversi sgrammaticata nel tentativo di ritrovare le forme e la sregolatezza dell’epoca, altamente documentaria.
A fronte di queste scelte stilistiche, l’ossatura della vicenda non risponde in maniera adeguata, sforzandosi in tutti i modi di costruire un’impossibile identificazione tra spettatore e protagonista, cercando di renderlo simpatico/riuscito/ganzo e di emozionare il pubblico con il suo entrare nei favori del sovrano. Alla fine Richard è davvero troppo perfetto, scopatore e medico infallibile, e questo nuoce molto al film, non supportato da un attore che renda credibile il superomismo del personaggio (il giovane McAvoy, mezzo Silvio Muccino mezzo Russel Crowe, è anche bravo, per quanto la sua fisicità minuta cozzi in maniera stridente con le dimensioni del personaggio). Parallelamente nuoce al film uno sviluppo poco convincente e molto poco coinvolgente. Il film si dipana infatti in maniera monocorde e prevedibile, la presa di coscienza di Richard è telefonata, la parentesi sentimentale con la moglie di Amin appiccicata, la parte centrale lunga e senza direzione. Ad aggiustare le cose, oltre al carisma e alla straordinaria interpretazione fisica di Whitaker, ci pensa il finale in aeroporto, quei venti minuti di angoscia e Storia in cui, finalmente faccia a faccia, i due mostreranno il loro vero sentimento (ed anche qui il dialogo dice troppo: già sono fin troppo evidenti le implicazioni simboliche del rapporto tra i due…) e la vicenda potrà volgere a compimento, senza rovinare eccessivamente il buono che per due ore è andata costruendo.
Il cerchio si chiude e le domande emergono spontanee: ma si tratta di un film della Fox o di un prodotto indipendente targato Searchlight? Quali sono le caratteristiche del cinema indipendente, una volta smarritasi l’autonomia dalle major? Quale linguaggio caratterizza il prodotto non-omologato, se è in questa libertà espressiva che possiamo rintracciare un segno distintivo del cinema indipendente? Ad essere sinceri, poco pare così sregolato in un prodotto come L’ultimo re di Scozia, forse nemmeno fedele alle regole standard del cinema mainstream quanto asservito e rispettoso praticante di una forma di fare cinema non ancora liberata, nascosta sotto la campana della Fox e lontana dalla Luce Indipendente in fondo al tunnel.