Oramai riconosciuto come uno dei maggiori, e forse anche più commerciali (nel senso positivo del termine…), artisti visuali del momento, Michel Gondry è passato con agilità, nel corso degli ultimi dieci anni, dai videoclip che tanta fama gli hanno donato al dorato mondo del cinema, e ad una serie di collaborazioni eccellenti. Il riferimento è ovviamente al lavoro portato avanti con Charlie Kaufman, il più originale sceneggiatore americano, in gran voga in questi ultimi anni.
Con le storie scritte da Kaufman, già sceneggiatore per l’altro ex regista di videoclip Spike Jonze, Gondry ha dimostrato una particolare empatia: prima l’esperienza riuscita a metà di Human Nature, poi il successo internazionale di Eternal Sunshine of the Spoetless Mind. In questo secondo caso, è risultato evidente quanto si abbinassero in maniera funzionale le storie intricate e dal sapore cerebrale di Kaufman con lo stile visivo di Gondry, con le sue trovate bizzarre ed artigianali, con la sua passione per il sogno e i processi della psiche.
Abbandonato Kaufman, ed ormai forte dell’aura da regista di grido conquistata con Eternal Sunshine, Gondry si è lanciato in un progetto totalmente suo, che della sua sensibilità e visionarietà è permeato da cima a fondo. Ora anche sceneggiatore, ha così voluto raccontare una storia autobiografica, piena di echi e rimandi sia a fatti della sua vita personale che alla sua immaginazione più riposta. Impossibile non scorgere in Stephane (interpretato dal dolce e versatile Gael Garcia Bernal), illustratore di talento costretto a lavorare per dei miseri calendari, che crea ed inventa oggetti, che confonde il sogno con la realtà, che si innamora perdutamente di una ragazza che con lui condivide molto di questa libera immaginazione (Stephanie, interpretata da Charlotte Gainsbourg), che piange come un bambino e non sa relazionarsi con la realtà, un evidente alter ego del regista Gondry, della sua semplice e sfrenata voglia di evadere i confini troppo stretti della realtà. Una relazione autore/testo che molto condivide con la tecnica di auto-immersione nel testo che ha reso celebre Charlie Kaufman.
Di Kaufman e di Eternal Sunshine, L’arte del sogno rivela altre forti influenze, prima tra tutte la dimensione favolistica ed ineluttabile del rapporto di coppia, l’incontro perfetto tra due personalità che paiono fatte apposta per fondersi. Che poi questo rapporto perfetto debba sempre affrontare i problemi di coppia, e soprattutto sbattere la faccia contro il muro dell’immaginazione dell’Altro e contro l’idea forte, più forte della Realtà, che l’altro ha di noi e che gli impedisce di scorgere il nostro volto e i nostri reali desideri, è il risvolto della medaglia che già Kaufman aveva scoperto con la metafora di Eternal Sunshine, e che L’arte del sogno prova a raccontare con forme di scrittura meno originali e trovate visive molto più invadenti. Non solo la distinzione reale/sogno si scioglie in un flusso immaginativo incoerente e spaesante, in una sorta di lynchismo blando e trasognato, ma anche le strutture del racconto si fanno semplici e dirette, al servizio della meravigliosa effettistica artigianale cara a Gondry: una passione, divertenti personaggi comprimari di contorno, un conflitto, una fuga mentale, una gelosia, una ripartenza, un finale (più o meno) aperto alle interpretazioni.
All’immagine Gondry demanda il compito di suggestionare, con trovate antiquate e ricche di fascino. Citando l’animazione anni ’60 su cui si è costruito il suo immaginario, dei cartoni animati educativi praghesi che con un linguaggio semplice parlavano al cuore riportando una realtà falsata più vera di quella vera, Gondry opera anche e soprattutto una restaurazione sulle forme della fantasia che l’avvento del digitale, nella composizione degli effetti speciali, tanto al cinema che nel videoclip, aveva oscurato e fatto dimenticare. La fantasia è falsa, e proprio per questo reale.
Descrivendo i motivi della sua passione per Stephanie, Stephane espone il principio base della “teoria Gondry” sull’immagine. Cito a memoria: «Mi piace perché fa tutto con le mani, le piace usare le mani». Altro che i pixel e la spaventosa animazione del digitale: al limite un blue screen per raccontare un’evasione mentale che comunque è sempre creativa e artificiosa. Ecco allora il bric a brac delle creazioni dei due protagonisti, la passione e il ritornare invadente della materia da composizione: il cellophane che diventa acqua e la lana che si ferma in cielo come nuvole. Ecco allora le location del film: la Stephane tv, il rifugio in cui il protagonista può liberare l’immaginazione, o la sua stanza da letto, piena di oggetti pronti a trasformarsi da un momento all’altro in qualcos’altro – spazi tra il reale e il fantastico capaci di aprirsi ad una incredibile dimensione cartoonistica, eccessiva ed emozionante. Emblematiche, e molto riuscite, la sequenza della discesa sulla neve e il sogno finale, l’impossibile fuga di Stephane nella macchina di cartone.
Queste divertite costruzioni scenografiche sono state realizzate da Gondry sei mesi prima delle riprese, e hanno poi fatto da sfondo al lavoro con gli attori sul set; identico procedimento adottato con la musica del film, in questo caso suggestionata dalle melodie anni ’60 francesi, che rendono l’insieme ancora più demodè, che il regista rivela in conferenza stampa essere sempre necessaria come ispirazione e guida nella scelta e nella creazione degli “spazi” dei suoi film.
L’arte del sogno costituisce dunque un’operazione molto ardita e tutto sommato riuscita, esprime un’idea di cinema lontana dall’ansia contemporanea di inseguire la realtà a tutti i costi per guadagnarsi i favori del pubblico – un cinema che nelle sue origini, della tecnica e dell’amore, semplice e toccante, sa ritrovare la misura dei propri strumenti linguistici e il motivo della propria urgenza, anche a costo di perdersi nel mare senza senso della trovata geniale: l’inevitabile scotto da pagare, quando si vuole portare il pubblico in un luogo che non esiste ma che ci appartiene da sempre e sempre farà parte di noi.