Progetto studiato e sviluppato nel corso di molti anni, e che ha potuto vedere la luce grazie soprattutto all’impegno dei suoi due interpreti principali, Il Velo Dipinto appare durante e dopo la visione come una rivelazione, un prodotto intelligente, corretto ed emozionante, con pochissime sbavature, che sa inserirsi nel filone del melodramma senza pretendere alcuna rivoluzione ma rispettandone i codici con abilità, giocando con consapevolezza coi vari strumenti a disposizione (fotografia, musiche, interpretazioni, racconto e montaggio). A vedere bene, si scopre poi che lo sceneggiatore del film risponde al nome di Ron Nyswaner, già autore di Philadelphia e di altri drammi a sfondo civile, e che la storia è tratta da un romanzo di Somereset Maugham, un classico della letteratura inglese, a quanto pare (beata ignoranza, la mia!…).

I presupposti per un polpettone d’epoca ci sarebbero tutti, a cominciare dalla vicenda, un matrimonio costruito secondo i rigidi dettami degli anni ’20 e destinato ad una crisi e ad una parabola discendente, considerate anche le circostanze in cui i due coniugi lo consumano. Lui infatti, dottore dal piglio umanitario, già in Cina come ricercatore, decide di inoltrarsi in un paese remoto dove il colera sta facendo migliaia di vittime e dove il medico locale è venuto meno. La moglie Kitty, già poco convinta del suo legame matrimoniale, è costretta a seguirlo e a subirne la guerra psicologica: di fronte ad un adulterio scoperto, anche il più mite dei dottori si trasforma in un vendicatore senza scrupoli (e senza vaccino). Le conseguenze dello spostamento si riveleranno decisive, come è ovvio che sia. Ma se pur ovvio, nel suo volgere verso un terzo atto alquanto prevedibile, il film è capace di donare allo spettatore delle emozioni vere, partecipate. Il parallelo con uno dei tanti lavori controversi di Bernardo Bertolucci, quel Tè nel deserto di circa quindici anni fa che tanto divise la critica, appare con evidenza. Non ci sarà la musica suadente di quel film, ma anche qui il piano sonoro-musicale veste una funzione determinante nel costruire il mood dell’epoca; non ci sarà la regia virtuosa dell’autore italiano (anche troppo virtuosa) o i sussulti che solo Malkovich e la Winger potevano donare, ma la capacità di sceneggiare mostrata da Nyswaner, costruendo con precisione il rapporto marito-moglie e sviluppando i personaggi con cura e verosimiglianza, grazie anche alle interpretazioni degli attori (e in particolare dei due comprimari, Toby Jones e Liev Schreiber), risulta uno dei principali meriti dell’operazione; non ci sarà il deserto con le sue malattie e le sue sonorità berbere, ma anche qui c’è un luogo straniero ed ostile, in cui cova una malattia mortale (e che analogamente prende solo i maschi…) e dove si fatica a comunicare e ad uscire dall’isolamento; non ci sarà l’invadente terzo incomodo Tunner (si trattava di Campbell Scott), ma anche qui la crisi di coppia nasce da una presenza estranea e negativa.
In ogni caso, pur senza la sofisticatezza del linguaggio filmico di Bertolucci, Il Velo Dipinto rimanda ad un cinema di genere e di emozioni per signora che funziona e colpisce, che non sorprende ma che aggancia lo spettatore, che pur con un epilogo di troppo sa raccontare il vincolo perverso del matrimonio e mostrare la morale di devozione che ogni rapporto inevitabilmente (e paradossalmente) comporta, se vuole funzionare. Lo dice bene la Madre del convento a Kitty, subito prima che la donna affronti il compiersi del dramma: “quando amore e dovere coincidono, la grazie è dentro di te”. Cosa volete di più da un melodramma, quando riesce a raccontare con acume, ponendo un conflitto e risolvendolo solo all’apparenza, le contraddizioni intrinseche ad ogni rapporto di coppia?