Viene spontaneo fare un piccolo lavoro d’immaginazione, mentre si assiste allo spettacolo dell’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino. Che poi è uno lavoro relativo, uno sforzo minimo, visto il contesto in cui s’inserisce l’uscita del film (i premi dati dal più importante festival del mondo a due film italiani importanti, questo e Gomorra di Matteo Garrone): sforzarsi di vedere il film con gli occhi e la mente dello straniero, cioè con l’idea che all’estero si ha comunemente del Bel paese – belle donne, mafia, pizza con la mozzarella e tanto calcio. Grazie a questo semplice lavoro d’immedesimazione, i due film italiani del momento si rivelano come dei perfetti racconti di due classici topoi dell’immaginario mondiale sull’Italia, la mala politica da una parte e la mala società dall’altra. La visione per il pubblico internazionale dovrà essere quindi stata piacevole, serena, e non certo per gli sgradevoli contenuti: sappiamo bene tutti quanto sia più piacevole che un film o una persona o quel che volete confermi la vostra idea piuttosto che la neghi. Non si tratta della questione “panni sporchi che si lavano in casa”, affare senza senso creato per riempire le pagine dei giornali, quanto capire i modi e i motivi che hanno determinato questa (tutto sommato) inaspettata riscossa del cinema italiano all’estero.


E’ un problema di enunciazione, direbbero gli accademici: tanto il film di Garrone quanto quello di Sorrentino sembrano cioè pronti a raccontarci una verità, sembrano aver già deciso dove mettere la macchina da presa e loro stessi, dirci con chiarezza loro registi da che parte stanno. Non lo nasconde Sorrentino, quando con estrema franchezza ammette di aver fatto questo film soprattutto per quella scena, il bacio tra Andreotti e Totò Riina, quella che ha fatto imbestialire il Divo Giulio. E non lo nasconde neanche il suo film, nei momenti cruciali e nell’impostazione di fondo tutto teso a raccontare i luoghi comuni della mala politica o immagini tristemente note al pubblico mondiale, ed ormai divenute proverbiali (prima tra tutte, la baruffa durante la seduta parlamentare). Da qui il dubbio che l’immaginario estero sull’Italia sia stato ampiamente preso in considerazione, dagli autori del film…
Ma mentre Garrone insegue la finzione cruda e ambigua del documento, di un cinema verità impossibile, tanto è rimasto intrappolato in una macchina produttiva che finisce per impoverire, a conti fatti, anche il suo immenso talento visivo, Sorrentino gioca di accumulo, e non di sottrazione, e reinventa la realtà più che inseguirla. Lo fa ovviamente a modo suo, con quel gigionesco e frenetico movimento della mdp che ormai ostenta come un irrinunciabile marchio di fabbrica – uno stile pericoloso, che se nel suo ultimo lavoro (L’amico di famiglia) finiva per restare vuoto esercizio, non più al sevizio di una storia ma solo del divo Sorrentino, pare trovare qui un contesto adeguato per riproporsi. In mezzo a volti mostruosi dei personaggi reali, tanto simili da risultare alla fine completamente inventati, la mdp corre e si spertica in cerca di un ritmo pazzesco, che fa girare la testa. Per carità, viene subito da contraddirsi, non che abbia trovato una sua misura, Paolo Sorrentino: come sempre esagera, ostenta, carica tutto. Però con il mondo della Prima Repubblica, con i giochini di palazzo e l’universo grigio di festini e raccomandazioni, e soprattutto con la figura immobile di Andreotti, il ricorso all’ossimoro musica/immagine (a Cannes il film ha vinto anche un premio tecnico, ci dice la produttrice Francesca Cima in conferenza stampa, proprio per il rapporto tra audio e video…), unito al solito montaggio convulso e alla quantità smisurata di dolly, paiono funzionare e creare un contesto coerente, aderente alla storia raccontata, mostruoso nel suo perfetto funzionamento. Il Divo sembra un film di fantascienza, ma non lo è. Il dubbio è che Sorrentino avrebbe forse potuto esagerare ulteriormente, caricare e caricare fino a rendere tutto definitivamente grottesco. Ma poi il rischio di rifare Todo Modo sarebbe stato fortissimo. E probabilmente anche lo stesso Sorrentino sa di non essere Elio Petri, e che Servillo non è Gian Maria Volontè.
L’impressione complessiva è che i momenti più eccessivi e personali, in cui il regista pur raccontando qualcosa che si basa su documenti riesce a rendere allucinante il tutto, siano quelli davvero riusciti. Ne citiamo due su tutti: il festino a ritmo di tamburi africani, con uno scatenato Buccirosso/Cirino Pomicino che balla in mezzo a splendide ragazze, e il siparietto di vita familiare dei coniugi Andreotti di fronte alla tv, ad ascoltare Renato Zero che canta I migliori anni della nostra vita.
Due momenti assurdi, assolutamente smisurati, che rappresentano quella deriva filmica che Il Divo cerca in tutta la sua durata, che trova molto spesso, soprattutto al centro, quando riesce a coinvolgere e far scordare il mondo terreno allo spettatore, ma che alla fine perde, consegnandosi ad una seconda parte lunga e scialba, ripetuta, che la confessione privata di Andreotti e il processo pubblico per associazione mafiosa non riescono a riempire a dovere. Lavorare fuori misura ha anche delle conseguenze negative…
Di Servillo inutile dire: lo sappiamo, che volete che ancora siamo qui a ripetere quanto è bravo? Basti aggiungere che stavolta riesce a convincere pur lavorando di sottrazione, senza strabuzzamenti e posture artificiali. Sempre con la battuta pronta, è vero, ma quello è Andreotti, non Servillo.
Della coerenza estrema di un autore come Sorrentino sarebbe invece il caso di parlare ancora, del coraggio di andare avanti nonostante tutto e dimostrare che a seguire con ostinazione l’entertainment, prima o poi, qualcosa si guadagna.
Una lezione per tutti.