Cose di casa

 

Avevo chiesto di starle accanto, tenerle lo sguardo e la mano. Le infermiere mi risposero di no, laggiù sarebbe stato molto meglio: di fronte a me solo un telo verde, da cui in pochi minuti sarebbe sbucata la testa di Pietro. Cercavo di immaginarlo, oltre i pixel dell’ecografia. Caterina ripeteva: “Speriamo non col tuo naso, ti prego non con le tue mani, belle ma di burro”.
Mi sedetti e i minuti si fecero ore. Allungai il collo per osservarla. Il sudore le aveva coperto la faccia come una maschera di cera. Gli occhi erano puntati verso il grembo, in cerca dello sforzo necessario. Provai a parlarle ma qualcosa nel mio respiro non andava, forse quel panino mangiato in fretta al bar dell’ospedale. Caterina mi scacciò facendosi aria, mentre le contrazioni ripartivano come un treno dalla stazione di sosta.
Le sue urla ora squarciavano l’aria e mi facevano accartocciare le pagine della rivista. Frenai la voglia di saltare oltre il verde, mi trattenni fino a quando non sentii il primo vagito, Pietro finalmente atterrato sulla terra. Il cordone che lo legava a Caterina fu reciso: adesso era solo, insanguinato, con gli arti incollati al corpo.
Lo portarono via per dargli una pulita, io mi avvicinai a mia moglie. Aveva gli occhi iniettati di sangue, il corpo svuotato. Mi strinse le mani senza guardarmi, concentrata sull’aria che pian piano fuggiva via. Meno male che lo ha fatto lei, si che è in gamba lei, io avrei combinato un disastro.
Rimanemmo così, in silenzio, fino a quando Pietro ci raggiunse: un fagottino avvolto in un asciugamano, grande come un cesto di frutta. Si guardarono. Lei scoppiava di gioia, lui tremolava eccitato, ancora con gli occhi incerottati. Quando li aprì la guardò, le lanciò il capo di un nuovo cordone. Li osservai distante, dimenticato. Scoppiai a piangere senza farmi vedere.

Infilai il cappotto sul pigiama, le scarpe senza i calzini, il cappello di lana al rovescio. Caterina teneva Pietro in braccio, avvolto in mille strati. “Meno fai meno sbagli” le piaceva ripetermi.
Salimmo in macchina e prendemmo a gironzolare nel quartiere. Quando Pietro si svegliava nel cuore della notte, disperato che pareva sul punto di strozzarsi, l’unica soluzione era accendere il motore e passeggiare a quattro ruote, noi tre insieme, lei al volante e io a bisbigliare la ninna nanna. Anzi no, che stupido! “Se lo guardi e gli parli non funziona, ancora non l’hai capito?” Intascai l’ennesimo rimprovero e tornai a guardare la strada.
Quella notte però Pietro non voleva spegnersi. Eravamo sfiancati. Caterina spiegò che dovevamo continuare a parlare ed ignorarlo, dicendo però cose che lo riguardavano. Questo lo avrebbe rassicurato, messo al caldo sotto a un riflettore. Io non capivo. Mi pareva che quel bambolotto di Pietro, che vedeva ombre e non sapeva di avere un corpo, non avrebbe mai notato la differenza. Caterina era molto più acuta di me, sapeva guardare lontano. La ascoltavo fissando l’airbag, assonnato e indifferente. Lei non si accorse di nulla, coi polmoni pieni di racconti senza pubblico.

Quando provavo anni fa a tenere in braccio un neonato, avevo il terrore di fracassarlo. Caterina cercava di spronarmi ma subito io lo riconsegnavo alle mani che me lo avevano affidato. Con Pietro ho imparato ad acchiappare bimbi anche piccoli, prevedendo i movimenti più inconsulti. Ho acquistato una sicurezza sfrontata, pericolosa.
È stato un incidente: lo stavo infilando nel seggiolone, Caterina di spalle in cucina, e Pietro si è allungato con uno scatto, sfuggendomi dalle mani. È caduto in terra, ha battuto la testa, ha attaccato a versare lacrime come a liberarsene per sempre.
Caterina è accorsa con un balzo, me lo ha strappato dalle mani. “Che gli hai fatto?” mi ha strillato bordeaux. Ho provato a star zitto ma l’orgoglio ha replicato a posto mio: ha denunciato la mia inutilità, la voglia di contribuire alla gestione di mio figlio, il senso di esclusione che mi stava strangolando. Mi tremava la voce, mi resi conto alla fine.
Caterina ha stretto il bambino più forte, come se le mie parole potessero colpirlo. Quindi mi ha preso un braccio, voleva dirmelo dritto in faccia, così che non l’avrei dimenticato facilmente. “Vattene via”.
Gironzolai nel parchetto sotto casa prendendo a calci l’aria. Era notte, nel buio solo le canzoni dei grilli, una dentro l’altra, incessanti. Mi appoggiai su un ramo in attesa d’ispirazione. Accanto all’albero scuro di fronte a me un’altalena vuota era mossa dal vento. Sembrava come se qualcuno ci fosse seduto sopra. Ma gli uomini invisibili non esistono. E soprattutto non c’era vento, quella sera. D’improvviso l’altalena si staccò dal terreno e prese a saltellare pesantemente, allontanandosi in direzione del prato.
Come una memoria che riemerge, un tuffo al cuore, il gas che esplode fuori dalla bottiglia, fui assalito dalla mia casa, il pavimento i mobili e gli infissi, dagli oggetti che la abitavano da quando Pietro era venuto al mondo, da quando era stato messo a capo di un’impresa più grande di lui: diventare il padrone delle nostre vite. Non feci in tempo a coprirmi la testa che tutto questo castello sgangherato e multiforme mi crollò addosso, schiaffi e pugni colorati mi travolsero e mi trascinarono via, rubandomi il respiro.

Squillò il telefono. Caterina andò a rispondere, con Pietro a sederino nudo appollaiato su un braccio. “No non è qui. Non è in ufficio? Ma si dai, a tutto c’è una spiegazione”. Pietro giocherellava con il filo riccioluto del telefono, le fossette come sacchi gonfi di polistirolo. Mi somigliava quando strizzava gli occhi, come quando lo solleticavo sotto il collo. Di Caterina aveva solo la voglia di piantar grane, e insistere fino allo sfinimento dell’avversario.
Li vidi atterrare sul lavandino come un aeroplanino borbottante. Caterina appoggiò Pietro nell’acqua e mi prese in mano. Mi strofinò con cura sul culetto, attenta a raggiungere anche le curve più dense di ciccia. Pezzetti di escrementi verdognoli mi si attaccarono in faccia, sulle braccia. Pietro rise, intuivo nella sua allegria una certa soddisfazione: tuo padre che con il viso ti pulisce il culo non capita tutti i giorni. Sudavo sapone, affaticato e orgoglioso per il lavoro svolto. Nessuno dei due si accorse di me. Provai a parlare, a urlare l’amore che mi aveva portato fin lì, ma la mano di Caterina mi allontanarono, poggiandomi di nuovo sul bordo del lavandino.
Ora che il sederino era pulito, Pietro fu sdraiato sul letto. Caterina lo amava senza distrazioni, senza prendere fiato. Aprì la confezione dei pannolini e mi estrasse, stavolta con meno grazia. Con un mano sollevò Pietro e con l’altra mi infilò sotto di lui, quindi mi chiuse appiccicando lo scotch delle ali. Dopo pochi minuti una doccia giallastra mi precipitò addosso. Una sensazione orribile, per nulla addolcita dal profumo di bimbo, mi travolse, attorcigliandomi le budella. La subii in silenzio, abbassando il capo per quanto possibile, incastrato com’ero.
Entrarono in cucina. Pietro venne infilato nel seggiolone e distratto con un sonaglietto. Li vedevo insieme, come la prima volta, ed erano belli. Io non c’entravo nulla. Potevo solo provare a rendermi utile. Caterina recuperò il piattino, il bavaglino giallo e me. Ci appoggiò accanto a lui. Sentii la presa di Pietro stringermi il collo, ancora non riusciva a dosare le forze. Un pezzetto di pastina mi si posò sulla schiena, mi infilai in bocca e lasciai cadere il cibo. Un filo di saliva mi avvolse la gamba destra, quando tornai alla luce esterna. Provai a sganciarlo con un scrollata ma ero immobilizzato.
Mi strinsi nelle spalle e respirai solo con la bocca, fino alla fine del pasto. Ma così non funzionava. Volevo esserci sempre, la soluzione era di fronte a me, a portata di mano.

Lo sguardo rassicurante di una mamma, l’onda di un abbraccio che vuole farti addormentare, le parole sillabate con delicatezza – ora capisco cosa significa tutto questo.
Caterina mi stende dentro il lettino, mi saluta con un bacio leggero e spegne la luce. Finalmente posso farmi indietro senza scomparire, addormentarmi sereno e restare vicino al mio bambino.
Io, Pietro.