Allora, mica facile.
Non conoscevo la trama di Adagio, avevo solo – come tutti – visto alcune immagini ed ero attratto da un cast all’italiana super stellare. E in effetti il lavoro sul cast, sugli interpreti principali, risulta la cosa più interessante di tutta l’operazione, per quanto autoreferenziale (possiamo capire solo in Italia – Servillo Favino e Mastandrea sono conosciuti un pochino anche fuori ma non al punto da poter apprezzare questa riscrittura dei loro volti/corpi): parlo dei 3 matusa della Banda della Magliana, il Mastandrea cieco da fumetto giapponese, il Favino che pare uscito da un film della Marvel, Servillo sublime quando si sveglia dal torpore della malattia che lo attanaglia e torna ad essere la belva del passato, sono loro ma sono anche figurine giustapposte a una storia noir/polar romanissima, in una commistione di elementi che innegabilmente sa essere seducente.
La linea narrativa riguardante il passato di una mala romana ormai al tramonto – e bravissimo Sollima a non mostrarla MAI in flashback – , cieca o uscita col cancro dal carcere o rincoglionita, mi sembra appunto il cuore significante dell’operazione, scommetto anche il punto di partenza, indubbiamente un’ossatura che intende guardare al percorso del suo autore e del suo protagonista (regista della memorabile serie Romanzo Criminale, come Favino fu il Libanese nell’omonimo film di Placido). La presenza dei 3 riempie il film ed emerge dalle ceneri, si staglia folgorante sul resto, anche grazie alla splendida fotografia di Paolo Carnera. Vale per Favino ogni volta che si muove o apre bocca, per Servillo quando si mangia la scena e tiene un coltello puntato alla gola dell’ottimo Giannini, meno per un Mastandrea che resta marginale in una scena doppia in odor di cammeo.
La convinzione purtroppo vacilla quando si guarda al plot principale, pretestuoso nel suo assunto (carabinieri finalmente criminali, benissimo, ma tutto sto casino per i soliti soldi extra che Vasco/Adriano Giannini insegue per risolvere il proprio divorzio, incastrando un ragazzino che – allo stesso modo – fa pompini per comprarsi le cuffiette? Bah) e troppo debitore di modelli americani e manualistica correlata, specie quando si ostina a darci backstory e fatal flaw (il Cammello Favino morente di cancro e il figlio morto per colpa di Daytona, a specchio a giustificare i sentimenti verso Manuel – brividi), a condurci verso un finale sinceramente brutto. Bruttissimo se allarghiamo lo sguardo e ci lasciamo travolgere dal solito, penso a Siccità di Virzì, senso di fatalismo tragico in cui versa questa Italia, Roma assediata dalla fiamme, cenere che piove sulla Tiburtina, un paese allo sbando e nel panico. Mh. Anche la Capitale ritratta con droni, plongée e tappeti musicali alla Nolan, strade insulse di periferia dove vivono buoni e cattivi (cioè sbirri e malavitosi) convince poco, sembra il tentativo di dire qualcosa di nuovo ma senza il necessario coraggio, alla fine sempre a scalo S. Lorenzo e al Mandrione stiamo.
In conclusione dunque un film che scorre bene e diverte, sorprende ed affascina, si fa prevedibile nell’ultima porzione ormai incasellato su un percorso di genere, di codici e riferimenti chiusi, da non riuscire a sorprendere e andare oltre una foto sbiadita (e male assemblata) di una malavita ormai morta e sepolta. E con quel tentativo sinceramente imbarazzante di fare della Tiburtina la stazione di New York e citare il mitico finale di Carlito’s Way – altro afflato, senso tragico, purezza di cinema, e daje no.
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