CIVIL WAR di Garland, film teorico e gelido, contro lo spettatore

Per capirlo e magari amarlo bisogna coglierne la riflessione contemporanea sull’altro, lo sguardo, la fotografia. Io non ci riesco mica.

La prima parte è abbastanza fiacca, con l’attivazione della dinamica madre-figlia tra Lee e Jessie prevedibile, dialoghi mediocri, questa guerra civile di cui non si dice molto e che si dà per assodata – chissà quando, chissà come, ma l’ombra di un orribile Presidente a-la Trump apre il film, quindi setta anche il posizionamento politico progressista generale.

Nella porzione centrale, mentre avanzano sulla strada che conduce a Washington DC, tra sorprese come la cittadina tranquilla destinata ad essere attaccata dagli uomini armati sul tetto o la comparsa di un’auto amica con musica a palla, pare di essere in una versione politicizzata de La strada di McCarthy. L’intensità non manca, la tensione è spesso altissima, il cameo di Jessee Plemons ormai elevato a Star rende bene l’idea della vita accanto alla morte, basta un clic per passare dall’altra parte. Un clic come quello prodotto dalla “camera” di Jessee, bravissima (ci mancherebbe), audace, inevitabilmente shockata da quello che vede, che si vomita addosso, che non ha alcuno spessore drammaturgico e che non le viene concesso proprio per servire la causa di un film teorico, dove i personaggi sono piatti e sottilissimi.

Inoltre, quello che davvero manca ed aveva forse modo di essere inserito, è una riflessione o una misura circa il rapporto dell’immagine con la realtà, la scelta estrema di fare il fotografo di guerra. Non manca certo letteratura e filmografia al riguardo. In particolare, seppure nel contesto non distopico di una guerra civile americana ma da reportage come in Salvador di Oliver Stone, tra popolazioni che combattono per l’autodeterminazione, mi viene in mente una battuta di Nick Nolte fotografo di guerra in Under fire (1983, Roger Spottiswoode), nell’immagine sotto – ecco questo tipo di sguardo, di attenzione al dialogo pare totalmente assente in Civil War.

Che giunge al suo finale (era ovvio che per primo sarebbe morto il vecchio reporter, e nella scena madre conclusiva proprio Lee), dove appunto si vorrebbero finalmente vedere assegnati sentimenti e profondità ai personaggi ma ormai è tardi, è andata, e questo tentativo risulta ancora più goffo e straniante perché va a chiudere un film che ha voluto, in modo perentorio e spesso avvilente, giocare puramente con la sua glaciale messa in scena, di quanto le tensioni negli USA soggiacenti potrebbero mai scatenare una guerra civile.

Occasione un po’ persa, film gratuito.

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