Nell’attacco subito suonano artificiose, registicamente esasperate da angoli movimenti e musica, forzate e a mio gusto spiacevoli, le prime sequenze tennistiche. Analogamente risulta inopportuno lo sguardo frocio con cui la prima porzione, diciamo fino alla conclusione del lungo flashback del 2006 (il triangolo, l’amicizia tra i due, il tennis juniores e il mito di Tashi), viene inquadrata – anche perché questa sospensione sul rapporto tra i due protagonisti maschili, quanto sia anche omosessuale o meno, pare appiccicata, non conclusa e non del tutto racchiusa nelle apparenti intenzioni del progetto.
Il film in effetti non si capisce cosa voglia essere, nella sua prima ora: ci accontentiamo del parallelismo didascalico tra il gioco sul campo e i rapporti di forza tra i personaggi, con il femminile a dominare le figure maschili, a fare da pivot decisivo e sempre con l’arma del sesso? Oppure ci sono delle pieghe che dobbiamo considerare? Forse solo sul piano formale. Da appassionato di tennis mi sono spesso chiesto durante la visione quanto le scelte visive e di montaggio per mettere in scena il gioco fossero azzeccate. Certamente nuove, audaci. Certamente il risultato di un disegno formale volto a caricare gli scambi e le falcate, l’infortunio, il sudore, le racchette spaccate, il servizio, i movimenti oltre l’estetica e l’inquadramento televisivo a cui siamo abituati. Se questo era un obiettivo, pare riuscito.
Poi il film entra in questa sua fase centrale, prima del terzo set nella sfida a New Rochelle, in cui tenta di rendere più complessa la storia, con tanti salti temporali, un intreccio che continua a traballare, la musica che vigliaccamente interviene per migliorare scene altrimenti scialbe (penso al momento di sesso mancato tra Tashi e Art, subito prima di quello consumato con passione in auto con Patrick), con il personaggio di Zendaya – presenza magnetica e magnifica – che si afferma come la villain del film o forse semplicemente la maga Circe che avevamo intuito.
Arriviamo allora alla resa dei conti, chi vincerà? Davvero Tashi accetterà l’offerta di allenare Patrick? Davvero Patrick accetterà di perdere per rilanciare un’ultima volta la carriera dell’ex amico, che ha vinto tanto mentre lui sopravviveva nel circuito dei challenger? Il timore che non avremo risposte avanza e domina questi ultimi minuti.
E infatti il film decide di non decidere. Si arrotola in maniera clamorosa sugli ultimi colpi del set, con ralenti insistiti e ripetuti, con un abbraccio finale a rete che lascia l’amaro in bocca. Si perché in definitiva il film è in linea con il Guadagnino estetizzante e stronzo che conosciamo (di rado apprezziamo) da quella bella uscita internazionale che fu Io sono l’amore. Challengers è un film coerente, eccessivo e piacevole, con una bella terna di attori (forse l’Art di Mike Faist meno incisivo, ma credo sia colpa del personaggio, a cui vengono date poche occasioni – campione medio, rassegnato, manipolato). Un film che tenta anche di raccontare il dark side della vita professionale nel tennis, con carte di credito svuotate e notti in auto, fame e mito di successo per sempre inseguito.
Un progetto quindi che si lascia consumare in fretta, vorrebbe dire molte cose ma alla fine si segnala soprattutto per la messinscena di uno sport che, in passato, tanti avevano giudicato “infilmabile”.
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