Dopo i successi di Uzak e Il piacere e l’amore (titolo fantasioso che sostituisce il più suggestivo Stagioni), il fenomeno turco Nuri Bilge Ceylan torna al Festival di Cannes con un lavoro che riesce a strappare, alla giuria presieduta da Sean Penn, proprio la Palma d’oro per la miglior regia. Un premio che, lo diciamo subito, sicuramente il coraggio e la sapienza delle immagini create dal regista turco probabilmente meritavano da tempo, forse proprio dal 2002, anno in cui (sempre a Cannes) Uzak vinse il premio per il miglior interprete maschile.
Se infatti Uzak resta tra le tre l’opera più limpida e originale, meno conscia del potenziale del proprio autore, meno ostinatamente d’autore, quest’ultimo lavoro soffre tali limiti in quanto traguardo, risultato di una maturazione che sta facendo di Ceylan, al di là del compiacimento nascosto dietro l’angolo, un maestro. Il paragone con Michelangelo Antonioni, pretestuoso e forse fuori luogo, non rende giustizia alla novità delle forme filmiche proposte da Ceylan: la lentezza che si trasforma in ricerca, la stasi del quadro che scivola in un indugio significante, la recitazione realistica degli interpreti che da semplice dato di fatto si trasforma in valore aggiunto mostrato con ostinazione, dalla regia intensa del turco.

Si diceva dei limiti di quest’ultimo lavoro. Sicuramente si tratta di un’opera molto teorica, di un film a tesi: la fragilità di un nucleo familiare che, messa in crisi da un agente esterno, impedisce una sana comunicazione per trovare una soluzione ai drammi dentro cui rotola lentamente. C’è anche una critica sociale, nel discorso di Ceylan: il film parte infatti con un incidente d’auto con omicidio di cui si macchia un politico, che per evitare il carcere fa addossare la colpa al suo autista. Il politico sedurrà senza molte difficoltà la moglie dell’autista, durante la detenzione dell’uomo, e verrà scoperto flirtare con la donna dal figlio adolescente (e tormentato già di suo). Al ritorno del padre dal carcere, ovviamente, l’accaduto, le magagne, l’impossibilità di risolvere il tradimento e la posizione difficile dell’uomo verso il politico genereranno l’escalation suddetta.
Nella sua struttura e nel suo sviluppo drammaturgico Three Monkeys ha già deciso in partenza dove andare, e si limita quindi a mostrare le conseguenze del “peccato originale”. Allo spettatore vengono consegnati quadri di una bellezza sconvolgente, in cui le tonalità iper-realistiche del verde e del giallo inquinano la policromia della realtà ambientale, facendo cioè anche della fotografia/regia del film un protagonista, affidando all’occhio della mdp un punto di vista che non insegue il realismo ma lo re-interpreta mediante una posizione chiara. Allo stesso modo i lunghi silenzi, gli scatti d’ira, le visioni di un secondo figlio morto anni prima (talmente emozionanti e melodrammatiche da risultare a tratti comiche, involontariamente), l’audio complesso e stratificato (per giunta privato del commento musicale) unito all’uso frequente, ed in importanti momenti di vibrazione del testo, dello slow-motion, intelligentemente usato per rallentare prima di una discesa ripida, fanno del terzo film di Nuri Bilge Ceylan un oggetto difficile da valutare: sicuramente più insipido e meno coerente degli altri due, più sapiente nella ricerca sull’immagine ma proprio per questo ancor più a rischio di formalismo estetizzante.
Certo estenuante, quando non riesce a trovare il senso nelle paludi dei suoi silenzi e dei suoi lunghi quadri. Cosa che Uzak e Stagioni riuscivano ad evitare con passione.