Ricorda il futuro

 

Mi ricordo la notte in cui tutto ebbe inizio. Insonnolito entrai in bagno e mi sedetti sul water. Gli occhi si sollevarono lentamente, finendo nel bidet di fronte. Non mettevo bene a fuoco ma vidi qualcosa, sembrava una fogliolina marrone. Come ci era finita? Staccai le cosce dalla tavoletta e mi avvicinai restando piegato. Solo allora capii che mi ero sbagliato, che la consistenza era molliccia e non cartacea, che le foglie non escono dal corpo umano per essere lasciate nel posto sbagliato.
Mi ricordo quando tornammo dal nostro ultimo viaggio a Rimini. Mentre aspettavamo che il cancello elettrico si aprisse notammo le luci accese in tutte le stanze, seppure fosse mezzanotte. Papà guardò la mamma e bisbigliò qualcosa. Si vergognava di cosa stava per accadere, non piangeva mai. Entrammo in casa e trovammo la nonna in cucina, il giaccone verde sulle spalle, la camicia da notte sudata sul dorso teso. Papà si limitò a spingere la sua agitazione in camera da letto, dove non l’avrei potuta vedere, dove sarebbe scomparsa come un brutto sogno. Le parole della nonna scemavano mentre la porta veniva chiusa alle sue spalle: “Dobbiamo andare a prendere il pane, apparecchia la tavola, stanno arrivando gli ospiti”.
Mi ricordo giornate intere appostato fuori dalla sua porta, la mano destra stretta sulla maniglia, la sinistra a reggere un game boy con lo schermo spento. Come un cane in gabbia che sbatte il muso contro lo stesso punto, la nonna si stupiva ogni volta di non riuscire ad aprire, ripetendo lo stesso gesto, la maniglia girata meccanicamente e inutilmente, poi la stessa frase di stupore. Mia madre mi riempiva di abbracci fotocopiati, dopo il lvoro; papà mi raccontava storie conosciute, nella speranza che restassi piccolo e non arrivassi a capire. Io ingoiavo lacrime calde mentre i giorni di scuola fuggivano via e le ossa si allungavano sotto la pelle.
Mi ricordo quando mio padre smise di darle i soldi, che continuava a smarrirli, a nasconderli ovunque senza senso. Io diventai bordeaux, seduto sul letto ad origliare, mi vergognavo come un ladro perché quello ero stato pochi giorni prima, un ladro: mi ero infilato nella sua stanza e le avevo rubato cinquemila lire per andare con Gennaro al Luna Park. Mi sembrava di aver rapinato una banca, ucciso il direttore con un colpo di fucile. E adesso tremavo, temevo di perdere la mia cassa continua a pochi passi dalla camera da letto. Ricordo di essere accorso dopo aver sentito il legno del trumò scricchiolare, sotto allo schiaffo potente di mio padre e al suo volto paonazzo, rabbioso di fronte all’indifferenza di una madre destinata a smarrirsi lungo il binario della demenza senile. Usciva dalla sua stanza come un paziente da un’operazione chirurgica, stremato come Abebe Bikila alla fine della maratona.
Mi ricordo quando questa bella poltrona di faggio, che adoravo perché ci cadevo dentro e mi serviva la mano di qualcuno per riemergere, ricordo quando perse la sua tinta originale e ogni settimana mutava verso il giallo, l’incontinenza di mia nonna ormai un’emergenza da risolvere con i fatti, non con il silenzio. La camera da letto assunse presto gli odori di un ospedale, le incerate sostituirono i copri-materasso, lo straccio e lo spazzolone il tappeto scendiletto. Mi sembra ieri che iniziai ad aiutarla a sedersi per mangiare, accompagnando la sedia fino al bordo della tavola. Non so quanto tempo dopo cominciammo a stringerle un tovagliolo intorno al collo, quanto ancora ad imboccarla. La minestra e i pezzetti di carne, il pane col philadelphia sopra, rotolavano stupidi su tovagliolo e tappeto, rifiutati da quel corpo fuori giri. A pensarci oggi le immagini si sono accavallate: intravedo angolini di eventi nascosti da altri, il fusto dei ricordi appiattito da un peso insostenibile. Come le immagini di film e programmi tv, uno di seguito all’altro, che trovo all’inizio dei tanti VHS impilati in cantina, registrazioni televisive di cui restano solo frammenti: il sorriso in una pubblicità, un vecchio logo Fininvest, Raimondo Vianello al Gioco dei 9.
Nell’armadio c’è una scatola rettangolare arancione, l’ho aperta e un mondo che ignoravo mi è esploso in faccia. Lei per me è sempre stata un manichino avvolto dalle ragnatele, con addosso la stessa gonna a quadri, lo smalto verde scuro, strati di pelle addormentata su collo e braccia. La sua calligrafia accurata, in cerca di un’identità, con l’illusione di avere qualcosa d’importante da dire, mi ha inchiodato per ore. Poesie scritte senza voglia poi lette e registrate su questo strumento antico, dai tasti duri. A fatica riesco a mettere in play e ascolto la sua voce, un canto lirico scombinato e in cerca di onestà. Mi volto a guardarla, seduto per terra tra il suo passato, lei precipitata dentro la poltrona giallognola, che parlotta sottovoce con i muscoli del viso contratti. Fino a qualche giorno fa accostavo l’orecchio a quel farfuglio, convinto che fosse incompresa, la sua malattia un dono che solo uno spirito libero come me avrebbe tradotto al mondo. Ho trovato invece solo frammenti di memoria, una quotidianità dissolta per sempre.
La cucina. I pantaloni. La macchina. Il negozio.
Le parole le sono rimaste in bocca, masticate troppe volte, ritornate al loro aspetto originario, un suono senza significato.
Afferro un pacchetto di fotografie. Sono sbiadite e bruciacchiate, mostrano momenti che ignoravo: mia nonna in mini gonna, mia nonna con un cane alto quanto lei, il nonno che scherza e cerca di gettarla in un lago dorato. Tra le righe dei vinili, le macchie sulle fotografie, il senso incerto delle sue poesie stanno tutti i balli in cui si è lanciata, gli amori vissuti e quelli solo immaginati, i luoghi visitati o solo sognati. In fondo alla scatola trovo uno strano binocolo. Ha le lenti come gli occhiali di una volta, squadrate, e una fessura sul davanti, sulla fronte per così dire. È lo spazio per infilarci dei piccoli dischi, su cui sono incise immagini colorate. Diapositive. Appoggio gli occhi sulle finestrelle smerigliate e mi volto verso la luce. Il 3D, lo sospettavo, mi avevano detto che è una cosa antica. Immagini di luoghi sentiti soltanto nominare mi si parano davanti, a me e alla figurina minuscola arrampicata su una montagna, ferma al centro di una piazza, in sella ad una bicicletta accanto al canale: la Groenlandia, Mosca, Amsterdam. Faccio un ultimo tentativo. Sfilo il disco e punto il binocolo verso di lei. Come previsto non vedo nulla, solo la superficie opaca delle lenti e l’ombra sfocata del suo corpo sempre più piccolo.
Cos’è stato? Lancio il binocolo nella scatola con un sussulto. Ha parlato, è stata lei? Se non fosse impossibile giurerei che è così. A quattro zampe mi avvicino. Le sue labbra sono fuori dall’inquadratura, non le vedo muoversi mentre sento affiorare una parola, nitidamente: ESCI. Balzo indietro terrorizzato. La nonna è nella sua solita posizione, la testa leggermene inclinata, l’occhio verde lacrimoso in fuga oltre l’infinito.
Suona il campanello. Sarà stato quello? Ho confuso il campanello per la sua voce?
Mi alzo e vado ad aprire. È Gennaro, la maglietta del Real Madrid e un pallone di cuoio sotto il braccio. La terra del campetto ce l’ha ancora sulle spalle, sull’elastico dei pantaloncini. Mi sorride, non dice niente. Sa bene che devo badare alla nonna, che non posso scendere a giocare. “Forse tra qualche giorno”, rispondo quando mi vengono a chiamare; “Forse quando la nonna non ci sarà più”, penso ogni volta vergognandomi un po’.
Accompagnato da una luce allungata, il sole basso che inonda la sala da pranzo e arriva qui all’ingresso, papà si avvicina e mi mette una mano sulla spalla. Non sapevo fosse in casa: in genere torna più tardi, quando già è buio. Il suo volto è un disco nero ma riesco a intuire il suo sorriso, i suoi occhi buoni, il suo permesso finalmente accordato. Dimentico la paura, la pipì sulla poltrona, le storie di mia nonna. Rubo il pallone da sotto il braccio di Gennaro e mi lancio dalle scale, con il solo desiderio di fare il primo goal.