Riccardo Scamarcio sta crescendo, non c’è che dire. In un periodo in cui impazzano analisi a tutto campo sul fenomeno che lo sta vedendo nuovo idolo delle giovanissime (e non solo), il ventottenne interprete pugliese, dagli occhi glaciali e la voce infuocata, punta ad articolare con maggior complessità la propria filmografia, alternando operazioni in stile canzonetta a commedie più impegnate che cercano di uscire dalla medietà del prodotto popolare. Ciò che stona in questa rima baciata, che farebbe del nuovo divo una promessa per il futuro, è proprio l’attore: che, a dirla tutta, non c’è, non esiste, non sta in piedi. Ci dispiace per lui (e per tutti noi), ma non bastano due sguardi intensi e patetici e la ripetizione meccanica di quattro regolette di recitazione imparate alla Scuola di Cinema per diventare un interprete. Serve un po’ di convinzione, un po’ di sentimento e niente supponenza, doti che ancora faticano ad emergere nella temperie di bullismo attoriale e vacua passionalità con cui Scamarcio si presenta al pubblico nei suoi film, indipendentemente dal ruolo interpretato.
Discorso diverso per Elio Germano, che oltre ad essere un volto ed un corpo personale e duttile, un carattere che sa vivere dietro le quinte dei personaggi cui presta corpo e voce, è un attore che dimostra ad ogni scelta di voler trovare un equilibrio, di esistere, di vivere il proprio mestiere con passione e dedizione. Certo, a queste doti innate, che Germano ha altre volte mostrato, è necessario associare una presenza dietro la mdp che ne guidi l’operato, che provi a trasformare quella carica in vita sullo schermo. A questo proposito, il lavoro fatto da Daniele Luchetti con i suoi attori nel film che lo riporta al cinema dopo anni di latitanza, appare discutibile, ma non mal riuscito. Abbiamo cioè da una parte attori navigati e non che danno corpo e sostanza alla parte (Zingaretti, la Finocchiaro, il piccolo e straordinario Propizio), dall’altra opposte individualità che male si assortiscono sullo schermo (i quattro giovani protagonisti comprese le due ragazze, la Fleri e la Rohrwacher). Il discorso su Germano e la sua verve, che trasuda verità e voglia di emergere ma che riesce soltanto a mostrarci Germano, più che Accio, funge da base al discorso complessivo sul film, che nonostante le affermazioni di Luchetti, secondo cui l’intenzione era non prescindere dal nostro tempo, cioè guardare al passato con gli occhi di oggi, soffre di pressappochismo e rende il quadro storico sfocato e poco convincente. Voglio dire che trattare quel periodo storico (anni 60 e 70 in prevalenza) cercando di utilizzare il microcosmo della famiglia come specchio dell’Italia divisa pare non solo riduttivo, ma anche fuorviante.
A questo schema semplice e semplicistico si accompagna però anche una visione molto vera dell’epoca, di un sessantotto fatto più in tinello che a lanciare molotov durante i cortei, di una politica che è tutta demagogia e stronzate, di un prendersi sul serio che non solo è sbagliato, ma soprattutto conduce alla morte. Ora, non so come prendere questa morale complessiva, se come un atto di barbarie culturale, che vuole riproporre lo stilema della commediola all’italiana, risicato e idiota, per cui è necessario farsi gli affari propri per campare cent’anni, oppure interpretarlo come uno sguardo anche acuto su un tempo di contraddizioni mobile, che come tutte le volte ha visto l’Italia pensare più al dolce che alla rivoluzione, più al cuore che alla lotta. La risposta sta forse nel mezzo, e dà ragione ad entrambe le posizioni. Luchetti è uomo di sinistra che con la sinistra sembra avere poco da spartire, prova a fare un’operazione trasversale, che racconti tutto accontentando tutti, e alla fine cozza con il muro del significante, come direbbe qualcuno. Emerge allora lo studio che sta dietro il film, il calcolo politico e commerciale, lo Scamarcio protagonista laterale che però sta in scena sempre e comunque, la storiella che sta dietro al titolo del film, pretestuosa perché della canzone di Gaetano non c’è traccia in tutti i 100 minuti di immagini.
Da un film sulla contestazione ci si aspettava forse qualcosina in più, al di là di siparietti divertenti (e molto italiani) e qualunquismo da autobus.