L’uomo che tornò bambino

 

A volte nuotava, e a posto delle braccia c’erano due ali. Quando invece stava in volo, e dall’alto osservava il mondo di sotto, enormi pinne volteggiavano nell’aria, sostenendolo con leggerezza. Le cose non stavano al loro posto, e quindi? L’importante era che funzionassero. Poi i piedi tornavano a terra e i sogni finivano, Fabio apriva gli occhi confuso, con bave di anestesia notturna a tendere i respiri, braccia e gambe a roteare, in cerca di nuove avventure. Non sapeva se definirli sogni o incubi, luoghi che sarebbero potuti diventare meravigliosi ma restavano banali, conosciuti.
Quella notte però Fabio aveva intravisto Valentina. Aveva ritrovato i suoi movimenti inconsapevoli, una seduzione prepotente pronta a sbocciare. Andavano alle superiori insieme, mille anni prima. Lei arrivava ogni mattina da un paese lì vicino, lui a piedi attraversava mezza città, tagliando tra binari morti e erbacce che nessuno si preoccupava di tagliare. Si incontravano in classe, non si scambiarono mai una parola. Solo l’ultimo anno Fabio si accorse di lei e di quegli occhi azzurri, il culo molto tondo, il sorriso leggero che faceva abbassare lo sguardo. Non fece in tempo a tentare che la scuola finì e non la rivide più. Non ci fu più occasione, chissà dov’era finita. Com’era il cognome? E quel mattino Fabio si svegliò con la presenza certa di lei, le mani sull’uccello umido, la voglia matta di incontrarla fuori dalla fantasia.
Erano le sei, tre ore prima dell’ufficio. Si spostava indolente, tra i vani precipitati nel caos. Accese il PC e iniziò una ricerca nata morta. Dopo un’ora passata a scorrere profili e elenchi di persone che forse, impossibile averne certezza, potevano conoscere Valentina, abbassò lo schermo con gli occhi rossi, la nausea in canna. Si vestì, sospirò di fronte allo specchio, come per lasciare la propria ombra nell’appartamento, e si calò nel traffico, nelle facce e nei rumori, nel mondo che di fuori lo aspettava per divorarlo senza appetito. Quella vita che aveva sempre meno da dirgli e da dargli.
Laura era arrivata in ufficio da venti giorni ma sembravano vent’anni. Chi l’aveva mandata? Come avevano fatto ad inventarsi quel posto, che non c’erano soldi neanche per la cancelleria? Ogni giorno Manuel faceva la stessa domanda, convinto che Fabio nascondesse la risposta. “Come fai a non saperlo? Non è in stanza con te?”. Fabio lo sapeva eccome, ma per evitare il lamento contro il fiume di raccomandati che travolge l’Italia, contro i politici ladroni e i genitori della nostra generazione, i peggiori dall’inizio dell’umanità, preferì mentire. Parlava sempre meno durante il lavoro, da giorni. Opinioni e risposte gli sbandavano nel palato e tornavano in gola. Stufe, convinte di non servire più a nulla.
Andrea lo convocò nel suo ufficio, voleva accertarsi che si sentisse bene, perché con quella faccia non se ne restava a casa invece di gelare il sangue a chi lo incrociava in corridoio. Fabio non capiva, e non stava mentendo. Si guardava allo specchio e non vedeva nulla di strano: un po’ più giallo del solito, sicuramente, forse le linee della bocca un po’ scese, ma niente di così allarmante. Gli rimandavano tutti un’immagine di malato che non gli apparteneva. Almeno fino a quel pomeriggio.
Stava tornando a casa dal lavoro. La solita strada, fatta mille volte. La prima a destra, poi l’alimentari e la piazzetta con la fontana, infine il numero 27, campanello 12. Un azione ripetuta da tre anni, ogni giorno. E invece quel pomeriggio si ritrovò altrove. L’insegna sbiadita di una trattoria, un mucchio motorini ammassati, l’ingresso di un piccolo parco oltre la curva. D’improvviso Roma era diventata una città mai vista prima. Una signora con la busta della spesa si avvicinò per aiutarlo. Ma non sapeva cosa dirle, non ricordava l’indirizzo di casa e nemmeno da dove venisse. La signora sorrise dolcemente, clemente con quell’inquietante blackout. Fabio andò a nascondersi in un bar, aprì il portafogli, lesse il proprio biglietto da visita come fosse l’elenco telefonico. Solo così ritrovò la via, i segni di un presente sempre più prosciugato, gli eleganti quartieri intorno al centro di Roma immersi in un deserto sensoriale: statue di sale, mura trasparenti, venticello indifferente, vuoto.
Su internet non trovò alcun indizio per capire cosa stesse accadendo. Finì a navigare senza senso, tra fotografie di amici che non vedeva da anni e sigle di telefilm degli anni ’80. Scavava a mani nude nella terra indurita dagli anni, le unghie che si sporcavano e spaccavano, la scatola dei ricordi e i bagliori del passato giù in fondo, a vista ma ancora troppo lontani.
Fu così che perse il lavoro. Come diavolo aveva potuto dimenticare? Andrea era incredulo, costretto a prendere provvedimenti. Continuava a fissare Fabio, in attesa di una spiegazione. “Non ti preoccupare, ho un po’ di soldi da parte, va bene così”. Andrea non poteva capire, nessuno poteva capire. Ogni accidente, persino ritrovarsi disoccupato, scivolava senza colpo ferire sul suo corpo, come l’acqua nel box doccia, che finisce in un buco per morire chissàddove.
Quella sera a Marinella non disse nulla. Lei aspettava la dichiarazione, ne avevano discusso per mesi, avevano preparato quel momento. “Che tristezza” pensava Fabio, “anche la proposta di matrimonio stabilita a tavolino”. Marinella parlava convulsamente, senza spazi di separazione: il lavoro che andava male per le interferenze di suo padre, la luna di miele già prenotata, la casa pronta per essere riempita. Correva, lungo il sentiero di un futuro che per lei, e solo per lei, aveva una forma precisa e giusta. Cercò di catturare la sua attenzione, gli chiese consigli sull’itinerario di viaggio, cosa voleva fare del resto della serata, anche solo cosa avrebbe ordinato per cena. Ma Fabio non c’era, non esisteva più. Al suo posto una sagoma di cartone, due buchi al posto degli occhi e una fessura per far uscire i respiri. Non avrebbe scelto nulla, non ne aveva voglia, gusti e opinioni erano diventati finalmente, dopo anni di pazza resistenza, un prurito senza significato. Quello che voleva fare Marinella, dove voleva andare, cosa voleva mangiare: a lui andava bene. In bilico sul burrone, tenendo l’anello e le sue parole strette tra pollice e indice, lasciò cadere giù e non si voltò una seconda volta.
Il giorno dopo scomparve. Per un mese si trascinò lungo una Roma polverizzata. Mangiava poco, dormiva molto, le ginocchia tremavano senza motivo. Qualche amico lo cercò, andò a bussargli alla porta. Ma nessuna risposta produce solo sconforto. Soprattutto in una grande città, dove nessuno è disposto a sprecare energie per aiutarti, specie se non vuoi essere aiutato.
Marinella telefonava e lui non rispondeva. Non la sposò, non le parlò più. Qualcosa di straordinario era accaduto. L’orizzonte del futuro si era increspato, finendo per piegarsi e riportarlo indietro, capovolto e tranquillizzato, circondato da giocattoli e calore, la pioggia a lingua di fuori e le partite di pallone, la macchina che al mattino ci mette dieci minuti a mettersi in moto e le spalle squadrate dei genitori accanto, pronte a consolarti. Arrivò il padrone di casa con un avvocato, sfratto esecutivo imminente. Fabio chiuse le valigie e raccolse alcune cose, non tutto, perché alcuni oggetti il proprietario li prese con sé. Disse che erano suoi e non di Fabio, che c’erano già. Non era vero, ma Fabio era rivolto altrove. Come non era vero che lo specchio del bagno era stato lui a romperlo, lo aveva trovato così. Il proprietario insistette, allargò le braccia e mise le mani in tasca, segno di attesa, dov’erano i soldi? Fabio prese i pochi contanti rimasti, ne aveva a sufficienza, e lo pagò.
Alla sera, aveva fatto buio da poco, arrivò. L’emozione di prendere la corriera, come diceva ancora sua madre, scendere nella piazzetta e guardarsi intorno, come fosse arrivato dall’altra parte del mondo, Fabio la immaginava da giorni. Come lampi senza tuono, i brividi della memoria illuminarono i palazzi, la panchina, i due lampioni, trasformarono la notte in giorno.
Adesso c’era, e finalmente poteva rivivere quello che ricordava con fatica – il suo passato.