Non che i dubbi non siano sorti anche in precedenza, ci mancherebbe. Vuoi l’entusiasmo per la scoperta di un nuovo autore, vuoi la magia dell’avvolgente messa in scena con cui i film precedenti si presentavano, ci eravamo mostrati piacevolmente sorpresi di scoprire in Italia un autore, nella schiera sempre più folta di registi under 40, capace di coniugare intelligente senso estetico a storie nuove e coinvolgenti utilizzando al meglio gli strumenti che Madre Natura Cinema gli metteva a disposizione. Paolo Sorrentino appariva così, dopo l’esperienza de Le Conseguenze dell’Amore, un autore che aveva da dire molto e sapeva divertire, superbo dialoghista ed acuto modulatore di sentimenti. Ci siamo avviati quindi ben disposti (ma allarmati dai nefasti risultati conseguiti a Cannes) verso la sua terza opera, L’amico di famiglia, storia di usura e solitudine. E abbiamo scoperto che poco, probabilmente troppo poco, è stato qui detto (o anche semplicemente raccontato) per differenziarlo dalle due pellicole precedenti.

Geremia De Geremei, perfido e solitario strozzino, imbastisce il suo business tra le secche dell’ex agro pontino, coadiuvato da un vaccaro (interpretato da Fabrizio Bentivoglio) che sogna l’America e da due scagnozzi pronti ad intervenire quando i clienti non pagano in tempo. Geremia convive con l’anziana madre di cui si prende cura e sogna un giovane corpo di donna da possedere, lui, al quale questa possibilità è stata sempre negata. Sarà il sinuoso e splendido biancore della fin troppo invadente Laura Chiatti (invadente, oltre che per il suo aspetto, anche per la lista di titoli a cui ha partecipato…) a scombussolargli il cuore e a fargli fare pazzie per amore.
Una sinossi molto più esaustiva e concreta (se Medusa mi volesse assumere, sono sul mercato!….) di quella scritta dallo stesso Sorrentino nel pressbook del film:
“Geremia de’ Geremei, settantenne, usuraio, bruttissimo, lercio, ricco e tirchio, cinico ed ironico, ha un rapporto ossessivo con qualsiasi cosa. Con la madre, il padre, i soldi, le donne, insomma con la vita. Per questo, pensa di essere solo. E invece non è solo. Sono tutti come lui. Siamo tutti come lui”.
Permettetemi di dirlo: un altro film. O meglio: poco senso, nascosto dietro l’apparente poesia della forma. Lo stesso rimprovero che dobbiamo muovere alla pellicola, probabilmente.
Durante il press meeting post-proiezione, una voce acuta si alza dal gruppo: ma che vuol dire? Ottima idea chiederlo a chi l’ha scritta! Magro, troppo magro, infastidito dalle domande, inutilmente ironico, Sorrentino pare imbarazzato ed ostenta sicurezza/noia nel rispondere alle giuste osservazioni dei giornalisti. In questo caso, la risposta latita.
Paolo Sorrentino si è convinto di essere un autore necessario, quando di necessario il cinema italiano sta mostrando molto poco. Crialese, pochi Garrone, forse Marra, Saverio Costanzo ed altre poche, piccole e sparute gemme solitarie. Sorrentino aveva confezionato due prodotti intelligenti ed equilibrati: prima il folgorante esordio de L’uomo in più, con la scoperta di Toni Servillo, poi l’astuta ed azzeccata operazione de Le conseguenze. Oggi ritroviamo un Sorrentino che si ripete, che non controlla il suo proverbiale virtuosismo (le inquadrature fisse si contano sul palmo di una o forse due mani, se escludiamo i campi/controcampi dei dialoghi), che costruisce personaggi al limite della caricatura. E anche del melodramma. Il livello già aspro della dissipatezza raccontata ne Le conseguenze diviene ora macchietta, delirio, sfocia nel grottesco. Troppe le affinità e troppe le esacerbazioni da quel modello.
Pensiamo alle caratterizzazioni dei personaggi. Prendiamo Geremia. Lercio, è vero, “puzza pure”, dice qualcuno. Tirchio: da morire, c’ha un milione di euro e se lo tiene stretto, sfruttando la disperazione altrui. Occhialoni da sole anni ’70, cammina rasente il muro come il Buster Keaton di Beckett (Film, 1962), cerca monetine nel parco come un rabdomante, usa una 127 rossa very cool, c’ha una mamma che lo ‘scassa mortalmente ogni giorno, usa le fette di patate contro il mal di testa, adora il kitsch e le unghie lunghe (altra citazione, manco a dirlo: Taxi Driver…), indossa camicie e catenelle stravaganti, sempre sotto un lungo soprabito che lo nasconda agli occhi del mondo, e tanto altro ancora. Allo stesso modo, il mondo che gli sta attorno non ricorda in nulla, o quasi, il mondo reale. Soprattutto perché ogni personaggio, più o meno marginale, vive una sua barocca esistenza contrassegnata dal dolore o dalla derisione, dal fallimento o dalla desolazione, ed ogni volta che apre bocca (in questo Geremia è ovviamente il migliore, ed anche il più divertente…) sembra che a parlare sia Amleto sotto le sembianze di Tony Montana, travestito però da uomo qualunque.
Nichilista? Non solo, non riduciamo la potenza e le derive del cinema di Sorrentino, per favore. Soprattutto dandy, più che virtuoso (o meglio virtuosista), come molti gli rimproverano da tempo. Se ne Le conseguenze l’isteria della mdp trovava quasi sempre sua ragion d’essere (penso al superbo movimento di macchina durante la pera sul letto d’albergo…), qui lo stile appare del tutto scorporato dal testo del film, sembra seguire un suo percorso a parte e creare uno strato indipendente dalla storia. E non solo per quei fastidiosi e piccoli siparietti, che già da L’uomo in più rivelavano la voglia di Sorrentino di giocare all’autore “per forza” (allora era il balletto/siparietto di danza, qui le pallavoliste sui titoli di testa che Geremia osserva dalla finestra). Barocca è la descrizione e la necessità di sfondare il muro della visione anche quando non serve, anche quando la storia ci ha già pensato, e pure troppo. Una per tutte, l’inquadratura dall’alto sul volto di Geremia, violentissima e montata male, quando vengono a chiedergli il milione di euro. A che pro, cosa deve dire, che ce ne facciamo? Nulla, e il mal di stomaco dopo un po’ t’acchiappa, facendo rimpiangere piani fissi e decoupage all’antica.
Che poi, a vederlo bene (lui, non il film), così stonato rispetto ai modi sereni e piacevoli con cui si mostrava altre volte, viene il dubbio che Sorrentino sia consapevole dell’errore, o meglio dell’esagerazione compiuta, di aver varcato la linea, di aver oltrepassato il muro ed essere precipitato in quel bagno di ridicolo che vedevamo sul fondo ma che non avevamo ancora sfiorato negli altri due film. Si chiede il regista: mi faranno fare altri film? Noi glielo auguriamo, nonostante tutto. Sempre che alla disperazione fine a se stessa e al fascino delle rotaie sostituisca qualcosa di un po’ più originale.