Ogni tanto bisogna lasciarsi andare, nella critica. Ogni tanto, e va fatto per onor del VERO, ci si deve sentire liberi di esagerare, di dare sfogo alla soddisfazione e all’entusiasmo per aver visto un film eccezionale, soprassedendo sugli aspetti (nel complesso in ogni caso irrilevanti) che dovrebbero costringere a riflettere, per pronunciarsi in un giudizio più equilibrato. Gli Innocenti induce allora una riflessione, ma non sui suoi minimi difetti, per l’appunto: la riflessione riguarda il metodo, non l’oggetto. Anche perché a parlare dell’oggetto si rischia l’apologia. Scusate allora in anticipo i toni entusiasti e partigiani, la bocca aperta che questo fulgido melò vi spalancherà, e fatemi dire perché Gli Innocenti va visto, assolutamente.

Vibrante e emozionante, il nuovo lavoro del danese Per Fly chiude la trilogia sull’uomo contemporaneo, iniziata con La Panchina e proseguita con L’Eredità, e consente a Teodora Film, il piccolo distributore italiano che lo porterà in sala il 13 Aprile, di festeggiare i sette anni di attività (27 titoli complessivamente) con un film che si aggira lucido e definitivo, abbagliante nella sua forma, dalle parti del capolavoro.

La storia che Gli Innocenti racconta è semplice e verosimile. Carsten, professore universitario ex militante di sinistra, ha un’amante, Pil, sua vecchia alunna ed attivista anti-globalizzazione nella Danimarca dell’era Bush. Con alcuni compagni, Pil sabota i locali di una fabbrica di bombe intelligenti, ma nella fuga uccide un poliziotto, investendolo con il furgone. Aiutata da Carsten, trovata ed incarcerata alla giustizia danese, Pil è distrutta dai sensi di colpa, per aver spento una vita ed aver distrutto quella della moglie e del figlio dell’agente. Prendendo le sue difese, Carsten perde sia la moglie che il lavoro, per dedicarsi a Pil, per convincerla a non confessare il delitto, per mantenere vivi quegli ideali che la sua grigia vita gli ha costretto ad abbandonare (o meglio, a dimenticare…). Pil invece non riesce a dimenticare la propria colpevolezza, tenta il suicidio, fatica a vivere con i rimorsi, soprattutto dopo che lei e i suoi compagni vengono dichiarati non colpevoli…. Dire di più sarebbe un delitto, soprattutto per un film come questo, che fa della sua rocambolesca seconda parte un determinante punto di forza. La prima sensazione, dai fotogrammi d’esordio, è quella di una straordinaria forza espressiva, manifestata a più livelli: dall’emozione del paesaggio e del caldo commento musicale di accompagnamento (la scena iniziale, per l’appunto), all’intensa interpretazione degli attori, al montaggio sobrio ed essenziale, alla fotografia estremamente naturalistica (e non per questo assente o trasparente), fino alla sceneggiatura ricca e mai ridondante, sapiente nel fornire un quadro generale/complesso del mondo narrato senza scadere nella didascalia, o nella ripetizione. Sono sufficienti pochi tratti per descrivere i personaggi, un accenno e un tono per capire come sono accadute le cose.

Ma Gli Innocenti punta molto più in alto rispetto alla semplice riuscita della confezione (che potrebbe tranquillamente bastare per parlare di un ottimo film). Il dilemma politico VERO da cui prende le mosse, e che occupa la prima parte del racconto, si trasforma presto in una tesi crudelissima sul fallimento dell’uomo di sinistra, di cultura e di fama, che proprio per le sue capacità intellettive non può non fare i conti con la paradigmatica contraddizione in cui è precipitato: difendere l’indifendibile, convinto che il tempo avrebbe cancellato ogni traccia, e cercare di vivere per la vita dell’altro, rinunciando in primo luogo alla propria autonomia intellettuale, per poi ritrovarsi dalla parte opposta, la parte di chi si è sporcato le mani di sangue e si è giocato tutto, di chi ha il coraggio di accettare l’errore e pagare, per quanto il sistema, comunque incancrenito, sia ancora una volta sordo e non consenta il pagamento del debito. Lo strumento tremendo della coscienza diviene quindi protagonista del film, sgretolando letteralmente il personaggio: inutile la logica della menzogna e dello status quo di fronte all’ammissione della colpa, quella stessa ammissione che Carsten tanto dileggiava di fronte al parroco del carcere, cui Pil aveva confessato l’omicidio.

Il melò esalta i toni ed accende i sentimenti. Il verismo della messa in scena si concede giusto un paio di licenze, comunque logiche e coerenti con il discorso complessivo: lo sguardo tra Carsten e la vedova attraverso lo schermo della tv e il sogno dello stesso Carsten, in ogni caso filtrato dalla ferrea e fendente poetica del film – una poetica che è sempre al servizio dell’uomo, dei suoi baratri e dei suoi voli, delle sue ragioni e dei suoi tragici errori, indagati con occhi implacabili, soprattutto nel momento di più impietoso disvelamento. A salvare dall’eccidio delle proprio creature, cui tanto cinema di oggi è portato per un gratuito gusto dell’eccesso, interviene nel finale, ancora una volta, il volo e il paesaggio, i campi lunghi e larghi, emozionanti, delle coste danesi, che con una metafora diretta ed efficace offrono l’ultimo appiglio al povero spettatore (e allo stesso Carsten), provato per la potenza incredibile di questa “tragedia di un uomo ridicolo” nell’era della post-politica europea.