Capelli per terra

 

Quando li misi insieme mi riempivano la mano, e li avevo raccolti solo intorno al water. Somigliavano a ciuffi di un parrucchino strappato con forza, o ai peli di un cane che sta morendo lentamente. Non sembravano capelli caduti dalla testa di una donna. Piuttosto tessere di un puzzle che chiedeva di essere ricomposto. Restai a osservarli qualche minuto, chiedendomi cosa accade ai capelli quando ci lasciano, cosa si nasconde dietro quella fuga. Presi le forbicine e mi tagliai le unghie dei piedi.
Tornai in camera da letto e m’infilai sotto. Non ci volle molto ad assopirmi di nuovo, occhi chiusi e cervello aperto, orecchie puntate sui movimenti intorno. Che si ripetevano sempre nello stesso ordine: il ronzio ascendente della sveglia, spenta con una manata alla cieca; il materasso che si gonfia, disegnando i contorni della sagoma accanto a me; la macchinetta del caffè che gorgoglia a lungo, prima di essere rincorsa da passettini rapidissimi; infine la porta di casa che sbatte con violenza, senza una mano che la accompagni ed eviti lo scoppio.
Aprii gli occhi. Ero solo. Una nuvola con la forma di un respiro mi sollevò dal letto, facendomi fluttuare nella stanza. Con il gomito sfiorai il legno zigrinato dell’armadio, quindi pilotai il bacino verso terra e atterrai dolcemente sul tappeto. Nessuno mi guardava, potevo smettere di recitare e assecondare i miei desideri.
In cucina lavai i piatti sporchi della sera prima. Lei preferiva usare la lavastoviglie, non le importava di evitare spese superflue. Quando usava mani e guanti, sui piatti restava ogni volta qualcosa, una macchietta ruvida o il sapore disgustono del sapone.
Preparai il panno e spalancai i sei sportelli sopra e sotto i fuochi. Dentro c’era di tutto, roba da mangiare e roba per mangiare, pentole che non avevamo mai usato e barattoli ingrigiti dai mesi passati senza sole. Mi intenerii a girarne uno in mano. Pensai al tempo che aveva trascorso lì dentro, dimenticato dopo lo stupido acquisto che lo aveva visto protagonista. Pensai a quanta solitudine si può nascondere in una pila di fagioli borlotti.
Mi ritrovai ore dopo seduto sul divano, con la polvere seccata sui polpastrelli. Balzai in piedi solo quando vidi le lancette dell’orologio: Eleonora sarebbe arrivata dopo poco. In un lampo rimisi tutto in ordine, canticchiando un motivo floreale stimolato dall’odore che veniva dagli scaffali. Consumavo così le mie ultime parole – tra non molto sarebbe calato il silenzio, dentro quella casa.
Eleonora tardò mezz’ora, un suono dal telefonino mi avvertì poco dopo. Trovai il tempo di passare al bagno, straccio a terra e carta di giornale sullo specchio. Non che servisse, lo avevo fatto solo due giorni prima, e anche allora era stato puro scrupolo. Ma dense macchioline si stavano formando sulla mia immagine riflessa, pezzetti di dentifricio erano rimasti attaccati sul bordo del lavandino, la mia lametta come sempre era nel posto sbagliato, lasciata da Eleonora nel box doccia.
Solo alla fine mi accorsi della quantità di capelli intorno a me. L’assurda sensazione che si stesse rivelando una forma, un senso, mi colse alle spalle e mi attraversò come un vento caldo.
Stavo finendo di mangiare quando squillò il telefono. Dissi mezza parola, la prima dal suo arrivo in casa, e mi allontanai da Eleonora. Era Andrea, ogni sera sentiva lo sfrenato bisogno di chiamarmi, di ripetere le stesse domande; ogni sera il tono delle sue parole scadeva nel melodramma, ogni sera più impietosito. Che la volta successiva si sarebbe messo a piangere? A nulla serviva ripetergli che stavo bene, che ero sereno seppure in attesa.
Per fortuna quella sera cambiò tono, dopo una serie di lunghi sospiri, per dirmi che gli serviva il mio curriculum. Forse aveva trovato qualcosa, un tappo per farmi distrarre. Lo ringraziai, dicendo che glielo avrei inviato la mattina dopo. Lui sorrise alla cornetta, e alla sua meravigliosa filantropia, e mi diede la buona notte.
La porta esplose contro lo stipite ed aprii gli occhi. Stavolta puntai dritto al soffitto e mi ritrovai incollato con due ventose al posto delle mani, con la testa reclinata ad osservare il letto vuoto. Non c’era traccia dei vestiti di Eleonora. Tirai fuori tutta l’aria che tenevo nei polmoni e atterrai di fronte allo sgabuzzino.
Trovai subito quello che cercavo: il porta biancheria avana, ancora chiuso nel cellophane, comprato e mai usato. Lo scartai e lo posizionai in bagno, sotto alla mensola dei libri sempre impolverati. Ne sfogliai uno, lo pulii con un pezzetto di carta igienica, quindi presi la scopa e tornai a spazzare a terra. I capelli di Eleonora erano ovunque: dietro lo scopettino della tazza, sotto al tappeto, vicino al rubinetto del lavandino, nel vano della doccia. Li raggruppai e mi fermai a guardarli. Si erano riuniti, come il mercurio di un termometro rotto. Formavano un cerchio ora, alcuni puntavano verso l’esterno e altri verso l’interno. L’inevitabile logica di squadra, pensai mentre mi sedevo sul water, qualcuno ci sta e qualcuno rema contro. “Anche voi siete Eleonora, anche voi siete la donna che fino a due mesi fa voleva sposarmi ed ora non mi rivolge più la parola”. Chi aveva parlato? Ero stato io, e la cosa aveva perfettamente senso. “Perché non riusciamo più a dirci le cose? Perché hai preso così male il mio licenziamento, e io invece mi sforzo di essere sereno?”
Mi avvicinai con passi leggeri. Ancora non mi guardavano, ma ci mancava poco.
Accesi il computer per aggiornare il curriculum. Mi sembrava perfetto così com’era, ma Andrea era stato chiaro: dovevo calibrarlo come da indicazioni, modifcarlo per il lavoretto che mi aveva trovato. Mi limitai ad arricchire le caratteristiche personali, c’erano degli aspetti di me che andavano evidenziati: il senso della pulizia, l’originalità nell’organizzare gli spazi, la voglia di non sprecare nulla. Si, così era molto più convincente.
Non mi rendevo conto ma continuavo a pensare alla stanza da bagno, a quello che stava accadendo lì dentro. Abbassai in fretta lo schermo, emozionato.

Eleonora quella sera non tornò. Il telefono squillava ripetutamente, lo alzai solamente per passarci sotto lo straccio della polvere. “Non credo che tornerà più” le dissi. Ero di nuovo sul water, avevo acceso una sigaretta e la fumavo con gusto.
Sul pavimento, dove prima c’era il tappetino sempre sporco, ora incrociavo gli occhi di Eleonora, dolci come la sera che ci incontrammo, ansiosi di sentirmi dire. Era ancora senza bocca, il nero dei capelli a figurarne i contorni del viso, piatta come uno schermo televisivo. “Ti ho idealizzato” confessai. “Ho pensato mi avresti capito e invece ho solo fatto finta”. Più affondavo la lama dentro me più lei rispondeva con umanità.
Provai a tirarla su ma mi fermai in tempo: sarebbe scivolata tra le dita, polverizzata. Andai in cucina e presi il vassoio grande, quello per mangiare in giardino, con tanti amici. Quelle cene che non avevamo mai fatto. Tornai in bagno e trovai nuove forme ad accogliermi: i capelli adesso erano volto, occhi verdi e bocca carnosa, ma anche busto, curve dei seni, punte di braccia e gambe. Mi mostrò i denti, come a rivelarmi la sua anima allegra.
Il soffitto si colorò di celeste e dovetti ancorarmi al lavandino per evitare di sbatterci contro, come un palloncino sfuggito dalle mani di un bambino distratto. Con l’aiuto del raccogli-polvere la trascinai sul vassoio. Aveva occhi solo per me, percepii perfino il bagliore di un sospiro.
Il cuore prese a battere veloce, impazzito.
Andrea aspettava da giorni il mio curriculum ma io non lo inviai mai. Provava a telefonare, la sera dopo il lavoro, la sua falsa amicizia sempre e solo via cavo, ma non trovavo più il cellulare. Non sapevo dove fosse finito e non m’importava. Restai a letto.
Accanto a me avevo Eleonora, innamorata, la sua sagoma e i suoi capelli.