All’arrembaggio

 

Finisco di lucidare il ponte di prua, di fissare l’albero maestro, caricare gli archibugi e agganciarli ai supporti. Lavorare con questo caldo è da reclusi, anche se io non sono imprigionato. Ogni tanto devo ripeterlo ad alta voce, come uno scemo, per ricordarmi che sono vivo.
Il mare gorgheggia divertito ma la sua allegria puzza, m’insospettisce: potrebbe rovesciarci quando vuole, cancellare con una mossa il nostro sogno. Mi fa venire voglia di diventare piccolo e nascondermi in cambusa, tra la carne in scatola e i rotoli di carta igienica. Mi ricorda che non sono niente, che posso essere sbattuto in una cella senza avere nemmeno il tempo di protestare.
Lui è sempre accanto a me, ci muoviamo come un corpo unico. Quando alzo gli occhi per controllare cosa sta facendo, ha avuto la stessa idea, e i nostri sguardi restano sospesi e legati, sopra i listelli di legno e le grida della ciurma, come il filo per stendere il bucato.
Ci unisce un identico obiettivo, un grande amore e un nemico comune.
Pazienti e rispettosi ubbidiamo agli ordini del comandante. Il motivo? Perché verrà il nostro turno, manca poco. Questo pensiero ci fa tollerare le sue urla abbaiate e la voglia di giustizia che ci tormenta il sonno: un criminale e il suo sporco ricatto, come tutti ripetono, finito a capo di un’impresa così nobile.
«Che fate laggiù? Andate a preparare il rancio, balordi che non siete altro.»
Si arrotola il baffo sinistro mentre ci fissa arcigno. Neanche fossimo un’imbarcazione nemica o granelli scuri appostati lungo la linea dell’orizzonte. Di lui riusciamo a vedere solamente le spalle, il pappagallo che come uno spioncino ci controlla e piegando la testa gli sussurra all’orecchio ogni distrazione dell’equipaggio. Sono gradi militari con becco e coda, che si è appiccicato sulla giubba senza averli guadagnati sul campo.
A noi non interessa. Anche quando il cielo si annuvola e la pioggia scende nemica, quando il freddo ci strizza come stracci bagnati e ci arrotola su noi stessi, impauriti gomitoli bambini, anche in quei casi non dimentichiamo.
«Tutti gli adulti sono pirati» mi sussurra in un orecchio. Sorrido e mi stringo nelle spalle, anche se non so cosa vuol dire. Non capisco mai le sue parole. Ogni volta faccio finta, ma le sue frasi restano sempre, anche dopo ore di riflessioni, un oggetto misterioso.
«Tra poco quest’incubo sarà finito e avremo quello che ci spetta.»
Un boato ci travolge. Mi volto di scatto lanciando indietro il suo braccio, sempre intorno alle mie spalle. Una palla di cannone sorvola le paratie e finisce in mare, tracciando un arcobaleno sopra le nostre teste.
I più piccoli l’ammirano come se fossero al luna park, le mamme li tirano a sé in ansia.
Noi uomini ci gettiamo a terra e strisciamo rapidi fino alle colubrine, gomiti appuntiti e occhio a croce, per sostituire un mirino che non è in dotazione. Iniziamo a sparare, con i denti serrati e la concentrazione di chi deve spendersi fino alle ultime forze.
E se a vederli i nostri cannoni potrebbero esplodere appena imbracciati, ridicoli residuati bellici, quando poi premiamo il grilletto centrano il bersaglio al primo colpo; potremmo chiudere gli occhi o voltarci, parlare e metterci a giocare, perché abbiamo armi millimetriche che tutte le fregate del Mediterraneo ci invidiano. Le imbarcazioni nemiche scompaiono, cancellate da un clic sul joystick.
La battaglia navale la vinco da sempre, da quando me l’hanno regalata per il compleanno. Non ci sconfiggerete mai.

***

Il sole si fa rosso e si china per rifugiarsi sotto il lenzuolo del mare. Da qui, da dietro l’oblò unto della stiva, pare un medaglione infuocato.
Mi volto e torno agli esercizi. Lui è sempre in attesa, nato pronto. Deve insegnarmi a impugnare la spada, a difendermi dai colpi parandomi il volto e ruotando il bacino, a colpire a morte con un coltello minuscolo, buono a malapena ad aprire una scatoletta di tonno.
Prendiamo posizione e indossiamo le cuffie. Mi volto e la stiva è diventata un corridoio infinito, il bersaglio di carta lo intravedo appena, giù in fondo. Ai lati scorrono scaffali zeppi di armi, bombe e munizioni, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Spalanco il pastrano nero e sfodero le pistole automatiche, come in quel film dove bisognava seguire il coniglio bianco mi metto a sparare, nascosto da un paio di occhiali da sole. Ancora ricordo la prima volta che l’ho visto, insieme a lui. La porta chiusa a chiave, il nostro segreto cinematografico. Non ho dormito per tre giorni. Mamma veniva a rimboccarmi le coperte, papà a leggermi una favola con unicorni e principesse. Ma io pensavo solo a questo momento, a quando avrei sfoggiato la mia incredibile velocità.
«Come a casa nostra, ci sentiremo come a casa nostra. E in più avremo nuovi amici, cibo a volontà. E loro vorranno ascoltarci, imparare come combattiamo, la nostra lingua, cosa ci piace fare. Ti rendi conto?»
Annuisco mentre schivo un colpo di katana e mi arrampico sulla parete. Glielo vedo fare spesso, tutto quello che so me l’ha insegnato lui. Per questo quando precipito a terra è abile ad abbassarsi e stendermi con uno sgambetto, ad immobilizzarmi premendomi lo sterno con la punta del ginocchio. Fortunatamente non è lui l’avversario da affrontare, avrei perso in partenza. Tutto quest’allenamento sarebbe stato inutile.
«Sì, è un’isola, ma pare che una volta arrivati avremo poteri incredibili. Ascoltami, e difenditi quando ti colpisco. Non è un gioco, devi stare attento anche mentre parliamo. I fianchi, certo, ma soprattutto il volto. Quali poteri? Starà a noi sceglierli, essere quello che desideriamo. Cosa voglio io? Io voglio incontrare i morti. Sì, quelli che non ci sono più, quelli a cui pensiamo la notte prima di addormentarci. No, niente streghe o sedute spiritiche. Non servono queste cazzate da ragazzini, laggiù. Perché i morti, tutti i morti del mondo, abitano sull’isola, sono in mezzo ai vivi e potrai vederli, persino parlarci. È il mio desiderio più grande.»
Non è il solo, anche io ho perso mio padre.
Eravamo in cammino, e improvvisamente è scomparso. Mi sono fermato, ho scosso le altre anime che con me si trascinavano silenziose, ma inutilmente. Ho fatto dondolare manichini di cartone: occhi ritagliati da fessure, ombre lunghe stese sulla sabbia. Allora mi sono svegliato, quello che dormiva ero io e non loro. Mi succedeva pure da bambino, provare a ridestare i miei incubi peggiori, convinto che così l’avrei ricacciati indietro. Mi succede ancora oggi: il problema non sono gli altri, sono io che parlo, che penso. Sono io quello che dorme quando non dovrebbe, che finisce nella palude del Regno della paura e rischia di soffocare.
Accanto a me ho trovato lui, talmente forte e sicuro di sé che della morte di papà riesce a parlare serenamente. Con lo sguardo fermo, la voce che non s’incrina. Capace di mettere in fila i fatti e prevedere le mosse successive.
Io invece sono crollato, ho ceduto allo sconforto. Ho cercato nell’oscurità le sue mani sempre pronte a spingermi in avanti. Mani salde come i sedili di un’astronave, determinata a raggiungere la meta. La mia schiena è fredda ora, il cielo puntinato di stelle, la notte un cicalare di pianti e disperazione.
«Incontreremo una foresta, si trova poco distante dalla riva. È fitta di alberi annodati come funi, arrampicati verso il cielo. Da lì verranno le prime insidie. Proveranno a circondarci con un abbraccio, stremati come siamo abbiamo bisogno di calore, e loro lo sanno. Ci infileranno le mani nelle tasche, sfruttando la nostra disattenzione, la curiosità con cui ci guardiamo intorno. Ci avvolgeranno in una coperta e ci chiuderanno in un recinto, provando a convincerci che è l’unico modo per darci la libertà. Il futuro, i diritti. I grandi propositi con cui amano riempirsi la bocca. Ma noi non ci lasceremo imbrogliare, non è vero? Ripetilo con me: non ci sconfiggerete mai! Abbiamo le spade e i fucili, le bombe a mano e le pistole nascoste sotto le maniche, nelle scarpe, dentro il cappello. Hai paura? Non sei capace di mentirmi, io vedo dentro di te e so che te la fai sotto. Ti dico una cosa, così forse la smetti di frignare. Non c’è niente di peggio del posto da cui veniamo. Hai capito? Devo ripeterti anche questo, per fissartelo in testa? Cosa dici? Davvero non sai cosa c’è lì dentro? Non lo guardare o s’insospettirà. Vieni.»
Ci spingiamo verso il fondo della stiva, dove il quartiermastro non può sentirci. I suoi occhi sono sempre su di noi, osserva gli allenamenti mentre con cosce come colonne difende il baule del tesoro. Dalla piccola serratura esce una luce accecante. Anni di sacrifici pigiati uno sopra l’altro, ansiosi di tornare nelle nostre tasche.
«Non devi piangere. Le nostre monete sono al sicuro. Tuo padre non te lo ha spiegato che per salire a bordo dovevi lasciare un anticipo, una cauzione, così si chiama, che una volta a terra ti verrà restituita? Certo, te l’ho detto cinque secondi fa, sono soldi tuoi. Stai tranquillo.»
Riesce a calmarmi accarezzandomi i capelli dietro le orecchie, bagnati fradici. Continuo a pensare alla fatica fatta per mettere insieme quei soldi, i tanti lavori che papà si procurava continuamente. Come se fosse qui ora, lo vedo rientrare in casa all’alba, o per mangiare un pasto caldo quando capita. Il sibilo dei proiettili per le strade, la paura di morire e la felicità di essere ancora vivo, ce li trasmetteva al primo sguardo. Quella luce avvolgente e insostenibile, di quando salutammo i suoi fratelli e le sue sorelle, vagando per villaggi, prima della partenza, m’inebriava e mi metteva paura
Quella luce la cerco nei suoi occhi ora, lui che somiglia così tanto a papà, come quando arrivammo in quella città sul mare, spaventosa, dove la gente per la strada ci guardava disgustata e sputava per terra. È stato lui a contare le banconote ogni sera, sfilandole dal calzino quando ci raggiungeva nel tubo, la nostra casa temporanea nella zona industriale abbandonata.
È stato lui a diventare il capofamiglia, a materializzare la nave in un angolo riparato del porto, fradicia e maleodorante. Dove in fila indiana siamo saliti a notte fonda. In silenzio, emozionati.

***

La polena è un bambino scuro di carnagione, sorridente, che con una mano si copre gli occhi dal sole e sta proteso in cerca di avventure. A bordo dicono che mi somiglia: che è curioso come me, tutto il tempo in movimento. Ora, io non posso vederlo, e quando ci siamo imbarcati non ci ho fatto caso, ma sono sicuro che non ha le pupille, è come uno degli squali che ci seguono da giorni, che sotto il manto scuro dell’acqua aspettano un passo falso per divorarci in un boccone.
Chiudo gli occhi e appoggio la testa sul suo corpo morbido e sinuoso. Il fianco destro è il mio, mi rifugio sotto il suo avambraccio caldo, m’inebrio del suo odore di zolfo e latte. Per lui c’è il sinistro, e a volte per scherzo ci prendiamo a schiaffi, da sdraiati, usandola come uno degli ostacoli per gli esercizi. Da sempre siamo appollaiati ai suoi lati, mai gelosi, consapevoli che condividerla è un onore a cui non rinunceremmo per tutto l’oro del mondo.
Ci stringe e ci fa addormentare. È un abbraccio che sa di radici, fissate in fondo al mare come un’ancora nel cemento. Una statua di sale che è partenza arrivo e viaggio.
Mi adagio nel sonno, cullato dalla sua voce, che m’incanta come la prima notte che l’ho ascoltata. Le onde diventano tappeti che mi portano via, dove tutto è confuso e giusto, non come nel Regno della paura: i nomi sono appiccicati a cose che non c’entrano, le facce appartengono agli uni e agli altri, il senso non dice mai quello che vorrebbe. E tutto questo va bene, mi calza a pennello.
Succede però che una mano torni al presente, sgusci fuori per tastare il fondo della nave. È bagnato, ma non della solita spuma che s’intrufola a bordo, o della pipì che per via degli incubi a volte mi faccio sotto: è un liquido denso, melmoso. Nel trambusto scivolo dentro film che non c’entrano, corro verso il negozio di videogiochi e calcio nel sette il rigore perfetto, resistenza alla realtà la chiama lui ed io non so che significa, ma anche prima di svegliarmi riconosco questa guazza calda che mi ricopre mani e polsi. È umana, vuol dire pericolo.
Capisco bene che si tratta di sangue. Sangue di lei.
La scuotiamo, proviamo a rianimarla. Il suo volto resta contratto in una smorfia di dolore rassegnato.
Lui mi urla di chiamare il comandante, è il solo che può aiutarci. La cassetta del pronto soccorso è sotto il timone, lo sanno tutti.
Il comandante è a prua, impettito e perennemente in cerca dell’approdo. Il pappagallo ha sentito i miei passi e lo avverte con un bisbiglio. Si volta, mi scruta, attende che dica per quale diavolo di motivo, nel cuore della notte, sono andato a disturbarlo. Riprendo fiato, gesticolo, sputo il terrore che lei non ce la farà, che non apre gli occhi e non sembra respirare.
«Siamo quasi arrivati, ragazzino, l’incubo è finito. Tra poco avrai i poteri che desideri e potrai guarirla come un mago. Smettila di frignare, basta!»
Mi arrampico in cima al cassero, usando le funi che io stesso ho assicurato. Lui si volta prima che riesca a colpirlo. Mi punta alla gola un coltello enorme, che non capisco come faccia a tenere in mano: si direbbe che sia il coltello ad armare il comandante, che mi minaccia con la bava filamentosa e gli occhi fuori dalle orbite.
Ho bisogno di voi, di tutti voi.
Sento le loro mani sollevarsi in segno di resa e allo stesso tempo di sfida, com’è possibile?, venire avanti oltre il corpo di lei, sopra il corpo di lei, per spingermi verso il burrone, verso la libertà.
È la vendetta degli ultimi, quelli senza nome e tanti colori, mistero di ombre che non volete vedere, che prima o poi verrà a bussare alle vostre case, a torcervi il collo, a voi comandanti sfruttatori, e allora ci riprenderemo quello che non abbiamo mai avuto, ci siederemo in sala accanto a voi e ci godremo anche noi l’inizio del film.
Come un cuore solo riusciamo a far rientrare la lama nel fodero, che io non vedo, gli occhi li tengo chiusi. È tanto tempo che non guardo. Mi hanno detto che così non avrei provato dolore, che sarei rimasto innocente. Sarei rimasto bambino. Mentivano, questa è la verità.
Allora li riapro, perché le narici funzionano e adesso mi arriva l’odore della terra che si avvicina, con i suoi prodigi, i suoi frutti. E la vedo, finalmente, nella foschia azzurra del mattino: una striscetta marrone che s’ingrandisce sempre di più.
Ce l’abbiamo fatta.
Vorrei ringraziarlo, anche se solo un minuto fa mi avrebbe ucciso. Ma il comandante non è più di fronte a me. Come ha fatto? Ora è vicino alla paratia di destra e con un balzo si getta in mare. Ci guardiamo senza parole, in continuo e stomachevole mal di mare. Il comandante scompare su una lancia rossa, indifferente al nostro destino.
Ora ricordo. Ho sempre saputo che era questo il finale, che mi sarei trovato nell’assurda situazione di voler ringraziare il mio acerrimo nemico. Che si sarebbe portato via i nostri soldi. Che lo avevamo pagato per condurci a destinazione, e poi sarebbe fuggito via.
La terra è là, sta per arrivare. Ora sembra più vicina, il tempo e lo spazio, amici miei, finalmente siamo diventati compagni. Niente inganni e niente trappole, niente finte vittorie. Solo un nuovo inizio, game over e un’altra moneta che scivola nella fessura.
Che vuoi fare, eh? Vuoi stare tutto il tempo a dormire?
Chi è questa, tua madre?
E lui, tuo fratello?
Ma sta bene secondo te?
Dorme?
Sveglia ragazzino, sei arrivato.
Sveglia!

***

Una luce bianca e blu rotea di fronte ai miei occhi. Salgono di volume i lamenti degli altri, come se solo ora avessi acceso l’audio.
In due mi sollevano prendendomi sotto alle ascelle. Profumano di pulito, di sterilizzato.
Mio fratello piange avvinghiato al corpo di mia madre. Sul suo volto non c’è più quella stanchezza, quella smorfia. Ora è serena.
Ho le gambe spezzate, i pantaloni bagnati di piscio e sporchi di fango e merda.
Mio fratello mi guarda e piange più forte, cede alla fatica e al dolore, come solo quelli coraggiosi sanno fare.
Ci mettono in fila indiana con una coperta sulle spalle. Ci danno una pacca leggera per farci passare al controllo successivo. È notte, e sono preoccupati per la nostra salute. Io sto riemergendo adesso, e di tutto ho voglia tranne che di riposare.
Dormiamo in una camera con le sbarre. Si alza il sole e ci danno da mangiare, ma nulla ha un sapore qui: solo l’aria, che sa di pesce che salta lontano dalla riva, e la luce, che ti scalda la lingua e secca gli angoli degli occhi.
Quando mi parlano non capisco. Papà conosceva questa lingua ma ora devo cavarmela da solo.
Arriva una ragazza con una cartellina e una felpa verde. Mi fa sedere e prova a comunicare. Si sforza di essere chiara, precisa. Ma capisco poco e riesco solo a innervosirla, a dimostrarle che non sa fare il suo lavoro. Quello che dice ha un suono strano, finto: se lo vedessi scritto forse riuscirei, ma così proprio non ce la faccio. Mi volto per cercare mio fratello, oltre il vetro della porta. Se ne sta seduto con le mani tra le gambe, la testa reclinata. Quasi non lo riconosco per quanto è sconsolato. Non si volta a guardarmi. Non sente che ho bisogno di lui, che sono a pochi metri. Che mi serve il suo braccio sulle spalle.
Restiamo lì due settimane, in attesa di capire chi siamo e dove andremo. A nulla serve spiegargli che non abbiamo più una casa, che in questi mesi anche i pochi parenti rimasti saranno scappati o peggio morti. Loro devono rispettare delle regole, dice così la legge di questo paese, e non possono farci nulla.
Intanto, fuori, la sabbia incontra le prime onde e le casette affacciate sul mare. Intanto, fuori, i giorni giocano a fuggire lontano, senza preoccuparsi di averci dimenticato.
Intravedo mamma e papà. Anche loro sono abbracciati, e si allontanano, diventando indistinguibili tra i flutti e la spuma.